mercoledì 2 novembre 2016

Dani #1 Racconto: Il runner


L’arte di correre

Non me ne voglia il Sig. Murakami se prendo in prestito il titolo di un suo romanzo – se proprio dovesse prenderla male, potrei fargli avere la traduzione in giapponese del mio racconto, o forse è meglio di no? – ma il fatto è che sintetizza perfettamente l’idea da cui è nato il mio racconto  Il runner.

Correre  è un atto di coraggio, perché ci vuole coraggio per restare soli con se stessi e i propri pensieri. E ci vuole ancora più coraggio per imporsi degli obiettivi, fisici e mentali, e raggiungerli e superarli ogni volta, proprio mentre lo sfinimento è lì che aspetta dietro la prossima curva, salita o discesa.

Ci vuole coraggio, come ce ne vuole in tutti quegli sport in cui ci si trova a combattere contro se stessi, e io provo ammirazione per chi ne ha e, soprattutto, lo trova al di là di tutto e di tutti. Delle circostanze della vita e delle condizioni atmosferiche.

Il vero runner non conosce dolore, pioggia, malessere o calura.

Il vero runner corre perché è la sua natura; è il suo corpo e la sua mente a chiederglielo e lui non può farne a meno. Ha imparato a non ascoltare i muscoli che gridano, il cervello che urla “Basta!”, la sete, la fatica. Ha imparato a controllare, a programmare, a gestire la sua vita in base alla sua necessità di correre.

Perché correre è un atto d’amore; verso se stessi e verso la vita.

E io, che a correre ci ho provato, ma poi ho lasciato perdere perché,  se non sei runner dentro, non te lo puoi inventare, ho voluto dedicare un racconto breve a chi runner lo è davvero (in particolare avevo in mente quello che, quando non corre, dice di essere il mio fidanzato J). 

Senza dimenticare quella giusta dose di ironia che accompagna, suo malgrado, la vita di un runner!

Buona lettura e, mi raccomando, non correte subito alla fine!



Il runner

Apro gli occhi che i primi raggi di sole filtrano dalle tapparelle che ho lasciato semi abbassate. Non c’è neanche bisogno della sveglia. So per certo che sono le 6.30, o almeno così dicono i rintocchi delle campane della chiesa qui di fronte. Butto letteralmente le gambe giù dal letto e m’infilo in bagno per un veloce risveglio.

Loro sono già lì che mi aspettano: una coppia perfetta, non solo eccezionalmente belle, ma selezionate appositamente  per delle performance ottimali. Silenziose e al tempo stesso energiche e scattanti, piene di vita e di colore. È così che mi sono sempre piaciute e, lo ammetto, non so farne a meno.

Potrei rinunciare a molte cose che fanno parte della mia vita, ma mai a loro. Il piacere che provo quando le accarezzo, e mi lascio avvolgere dalla loro morbida flessuosità, mi stupisce ogni volta. Come scoprire una donna nuova, con la certezza che è quella giusta, quella che non ti deluderà mai.

Sono pronto, pantaloncini e maglietta in tessuto tecnico, me le infilo ai piedi ed esco di casa. Un’ultima occhiata al cellulare per l’aggiornamento meteo; sono previste nubi sparse con possibili addensamenti, ma niente di che. Parcheggio l’auto nel solito posto e mi dirigo verso l’entrata del Parco.

Le gambe fremono per via dell’adrenalina che, da ieri sera, non tengo più sotto controllo. Questione di qualche minuto: un po’ di stretching per non iniziare a freddo, e poi potrò dare sfogo alla mia carica agonistica. Sono come una molla e sento tutti i muscoli tesi e contratti, come un centometrista che si concentra sullo sparo del via per poter scattare e bruciare, in pochi secondi, mesi di allenamenti e sudore.

La strada è lì davanti a me; una lunga striscia di asfalto grigio, dritta e leggermente in salita mi invita senza ulteriori indecisioni. Un passo dietro l’altro, all’inizio con qualche esitazione,  il mio ritmo diventa sempre più deciso e regolare. Passi non troppo corti, ma nemmeno esageratamente lunghi, che assecondano armoniosamente il battito del mio cuore e la cadenza del mio respiro che, da greve e faticoso, si fa a mano a mano più cadenzato e aperto.

Rompere il fiato dicono i runner professionisti, o perlomeno quelli che non vanno a correre solo tre mesi all’anno: quando non fa troppo freddo, non c’è troppo vento, non è troppo afoso.  Corridori della domenica, principianti e, nel peggiore dei casi, jogger che, per un vero runner, stanno alla corsa come un ballerino del sabato sera a una étoile della Scala. Tipi che, mentre corri decidendo in quale fase del percorso, precedentemente studiato, visto e corretto a tavolino come uno stratega militare, aumentare o diminuire la velocità, quasi nemmeno vedi ai bordi della strada.

Se non fosse per quei ridicoli accessori con cui si bardano - fascette asciuga sudore che coronano regali calvizie, e tute appena tolte dal cellophane a sottolineare, impietosamente, salvagenti adiposi - non me ne accorgerei nemmeno. Sono troppo preso a calcolare le distanze e a cronometrare i miei tempi, o meglio a verificare i miei risultati tempo al chilometro e velocità media, con il nuovo aggeggio da polso che - mi è costato sì un occhio della testa, ma ne valeva la pena! - mi permetterà di scoprire quali saranno i miei tempi nella prossima gara di distanza.

E pensare che non sono nemmeno uno tra i più fanatici nel nostro gruppo di amici. Insomma, non sono di quelli che seguono alla lettera piani di allenamento che stenderebbero persino un Navy Seal, o che arrivano a pesarsi prima e dopo la corsa per misurare esattamente il grado di disidratazione, e sapere quanti liquidi sono stati persi e vanno quindi reintegrati. Però mi piace impegnarmi a fondo, mettermi alla prova, capire quali sono i miei limiti e se riesco superarli.

Corro e mi sento libero. A ogni passo la testa si libera di tutti quei pensieri che mi danno l’assillo. Pensieri gravi, o semplicemente noiosi e irritanti: la rata del mutuo in scadenza, che non so ancora se sarà coperta visto che lo stipendio non mi è stato ancora accreditato, la prossima riunione condominiale, dove ho tutta l’intenzione di far presente all’Amministratore che l’inquilina sopra di me dovrebbe imparare a non buttare gli assorbenti nel W.C. se vuole evitare di intasare lo scarico e allagare il mio soffitto, e, carico da novanta calcolato in chili, quello stronzo di Matteo che sta facendo di tutto per uscire con Simona, quando sa benissimo che ci sto lavorando su da almeno sei mesi.

Dopo una curva a gomito si apre una discesa di circa trecento metri. Rallento un po’ l’andatura, e riassetto leggermente la postura per adattarla aerodinamicamente al diverso tipo di sforzo che mi si presenta. Lungo la discesa incrocio in senso opposto un altro runner. È un conoscente, a furia di frequentare con gli stessi orari e negli stessi giorni gli stessi tratti, alla fine ci si conosce un po’ tutti. Lo osservo arrancare su per la salita. Grosse gocce di sudore gli imperlano la fronte e il viso è completamente paonazzo.

«È messo male!» Penso e mi auguro di cuore di non arrivare così alla sua età. Dovrebbe avere circa sessantacinque anni, ma deve avere avuto qualche problema serio di salute perché anche il suo passo è incerto e pesante. Arrivo alla fine della discesa in tutta scioltezza che cadono le prime gocce di pioggia. Ma non avevano detto solo addensamenti nuvolosi? Mai che ne imbrocchino una! Allungo il passo, non ho nessuna voglia di bagnarmi anche perché mi sono scordato di portare il cambio.

Mentre cerco con lo sguardo un sentiero che mi permetta di dimezzare la distanza che mi separa dall’uscita, sopraggiunge un altro runner.  È Gianni, lo riconosco dalla mole - al suo cospetto mi sento come Masha e l’Orso, dove io ovviamente non sono il plantigrado peloso - e dalla tipica andatura con la testa a ciondoloni piegata sul petto e le braccia rigide lungo i fianchi. Praticamente tutto quello che non bisogna fare durante la corsa. «Gamba buona oggi, eh?» Butta lì, mentre procede incurante della pioggia che ormai cade fitta.

Imbocco il sentiero e accelero nel tentativo, non scientificamente provato, di schivare più gocce possibili. Il fondo sterrato è ricoperto da ciò che un ecologista definirebbe sottobosco, ma che per me sono solo foglie, ramoscelli, ghiande ed erbacce rese scivolose dalla pioggia che adesso scroscia decisa. E succede l’imponderabile. Le mie amate mi tradiscono, abbandonandomi al mio destino.

Le suole slittano sul terreno sdrucciolevole e manco la presa. Il ginocchio sinistro si piega e mi ritrovo all’improvviso a terra, lungo e disteso a pancia in giù per meglio dire, e con le gambe che ancora frullano invano per aria. Che visione indecorosa! Cerco di rialzarmi in tutta fretta, ma ricado peggiorando le cose. Adesso ho due escoriazioni stampate come francobolli sulle rotule invece di una! Mi guardo intorno per controllare che non ci sia nessuno in vista, ma non deve essere la mia giornata fortunata.

«Vuole una mano signore?» Mi chiede una voce suadente come una sirena. È una jogger, snella e perfetta nella sua tutina aderente e firmata. E non avrà neppure vent’anni.

«Tutto a posto, grazie!» Bofonchio sistemandomi alla bell’e meglio.

Vita dura ragazzi, vita da runner!



Creato il  14/09/2015
Pubblicato il 02/11/2016
Titolare del Copyright: Daniela Quadri





1 commento:

  1. Vita da runner. ...non fa per me.
    Leggere comodamente seduta le fatiche del protagonista non ha prezzo. Bel racconto

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