L’arte
di correre
Non me ne voglia il Sig. Murakami se prendo in
prestito il titolo di un suo romanzo – se proprio dovesse prenderla male,
potrei fargli avere la traduzione in giapponese del mio racconto, o forse è
meglio di no? – ma il fatto è che sintetizza perfettamente l’idea da cui è nato
il mio racconto Il runner.
Correre è un
atto di coraggio, perché ci vuole coraggio per restare soli con se stessi e i
propri pensieri. E ci vuole ancora più coraggio per imporsi degli
obiettivi, fisici e mentali, e raggiungerli e superarli ogni volta, proprio
mentre lo sfinimento è lì che aspetta dietro la prossima curva, salita o
discesa.
Ci vuole coraggio, come ce ne vuole in tutti quegli
sport in cui ci si trova a combattere contro se stessi, e io provo ammirazione
per chi ne ha e, soprattutto, lo trova al di là di tutto e di tutti. Delle
circostanze della vita e delle condizioni atmosferiche.
Il vero runner
non conosce dolore, pioggia, malessere o calura.
Il vero runner
corre perché è la sua natura; è il suo corpo e la sua mente a chiederglielo
e lui non può farne a meno. Ha imparato a non ascoltare i muscoli che gridano,
il cervello che urla “Basta!”, la sete, la fatica. Ha imparato a controllare, a
programmare, a gestire la sua vita in base alla sua necessità di correre.
Perché correre è un atto d’amore; verso se stessi e verso
la vita.
E io, che a correre ci ho provato, ma poi ho
lasciato perdere perché, se non sei runner dentro, non te lo puoi inventare,
ho voluto dedicare un racconto breve a chi runner
lo è davvero (in particolare avevo in mente quello che, quando non corre, dice
di essere il mio fidanzato J).
Senza dimenticare quella giusta dose
di ironia che accompagna, suo malgrado, la vita di un runner!
Buona lettura e, mi raccomando, non correte subito
alla fine!
Il runner
Apro
gli occhi che i primi raggi di sole filtrano dalle tapparelle che ho lasciato
semi abbassate. Non c’è neanche bisogno della sveglia. So per certo che sono le
6.30, o almeno così dicono i rintocchi delle campane della chiesa qui di fronte.
Butto letteralmente le gambe giù dal letto e m’infilo in bagno per un veloce
risveglio.
Loro
sono già lì che mi aspettano: una coppia perfetta, non solo eccezionalmente
belle, ma selezionate appositamente per
delle performance ottimali. Silenziose e al tempo stesso energiche e scattanti,
piene di vita e di colore. È così che mi sono sempre piaciute e, lo ammetto,
non so farne a meno.
Potrei
rinunciare a molte cose che fanno parte della mia vita, ma mai a loro. Il
piacere che provo quando le accarezzo, e mi lascio avvolgere dalla loro morbida
flessuosità, mi stupisce ogni volta. Come scoprire una donna nuova, con la
certezza che è quella giusta, quella che non ti deluderà mai.
Sono
pronto, pantaloncini e maglietta in tessuto tecnico, me le infilo ai piedi ed
esco di casa. Un’ultima occhiata al cellulare per l’aggiornamento meteo; sono
previste nubi sparse con possibili addensamenti, ma niente di che. Parcheggio
l’auto nel solito posto e mi dirigo verso l’entrata del Parco.
Le
gambe fremono per via dell’adrenalina che, da ieri sera, non tengo più sotto
controllo. Questione di qualche minuto: un po’ di stretching per non iniziare a
freddo, e poi potrò dare sfogo alla mia carica agonistica. Sono come una molla
e sento tutti i muscoli tesi e contratti, come un centometrista che si
concentra sullo sparo del via per poter scattare e bruciare, in pochi secondi,
mesi di allenamenti e sudore.
La
strada è lì davanti a me; una lunga striscia di asfalto grigio, dritta e
leggermente in salita mi invita senza ulteriori indecisioni. Un passo dietro
l’altro, all’inizio con qualche esitazione,
il mio ritmo diventa sempre più deciso e regolare. Passi non troppo
corti, ma nemmeno esageratamente lunghi, che assecondano armoniosamente il
battito del mio cuore e la cadenza del mio respiro che, da greve e faticoso, si
fa a mano a mano più cadenzato e aperto.
Rompere
il fiato dicono i runner
professionisti, o perlomeno quelli che non vanno a correre solo tre mesi
all’anno: quando non fa troppo freddo, non c’è troppo vento, non è troppo
afoso. Corridori della domenica,
principianti e, nel peggiore dei casi, jogger
che, per un vero runner, stanno alla
corsa come un ballerino del sabato sera a una étoile della Scala. Tipi che,
mentre corri decidendo in quale fase del percorso, precedentemente studiato,
visto e corretto a tavolino come uno stratega militare, aumentare o diminuire
la velocità, quasi nemmeno vedi ai bordi della strada.
Se
non fosse per quei ridicoli accessori con cui si bardano - fascette asciuga
sudore che coronano regali calvizie, e tute appena tolte dal cellophane a
sottolineare, impietosamente, salvagenti adiposi - non me ne accorgerei
nemmeno. Sono troppo preso a calcolare le distanze e a cronometrare i miei
tempi, o meglio a verificare i miei risultati tempo al chilometro e velocità
media, con il nuovo aggeggio da polso che - mi è costato sì un occhio della
testa, ma ne valeva la pena! - mi permetterà di scoprire quali saranno i miei
tempi nella prossima gara di distanza.
E
pensare che non sono nemmeno uno tra i più fanatici nel nostro gruppo di amici.
Insomma, non sono di quelli che seguono alla lettera piani di allenamento che
stenderebbero persino un Navy Seal, o che arrivano a pesarsi prima e dopo la
corsa per misurare esattamente il grado di disidratazione, e sapere quanti
liquidi sono stati persi e vanno quindi reintegrati. Però mi piace impegnarmi a
fondo, mettermi alla prova, capire quali sono i miei limiti e se riesco
superarli.
Corro
e mi sento libero. A ogni passo la testa si libera di tutti quei pensieri che
mi danno l’assillo. Pensieri gravi, o semplicemente noiosi e irritanti: la rata
del mutuo in scadenza, che non so ancora se sarà coperta visto che lo stipendio
non mi è stato ancora accreditato, la prossima riunione condominiale, dove ho
tutta l’intenzione di far presente all’Amministratore che l’inquilina sopra di
me dovrebbe imparare a non buttare gli assorbenti nel W.C. se vuole evitare di
intasare lo scarico e allagare il mio soffitto, e, carico da novanta calcolato
in chili, quello stronzo di Matteo che sta facendo di tutto per uscire con Simona,
quando sa benissimo che ci sto lavorando su da almeno sei mesi.
Dopo
una curva a gomito si apre una discesa di circa trecento metri. Rallento un po’
l’andatura, e riassetto leggermente la postura per adattarla aerodinamicamente
al diverso tipo di sforzo che mi si presenta. Lungo la discesa incrocio in
senso opposto un altro runner. È un
conoscente, a furia di frequentare con gli stessi orari e negli stessi giorni
gli stessi tratti, alla fine ci si conosce un po’ tutti. Lo osservo arrancare
su per la salita. Grosse gocce di sudore gli imperlano la fronte e il viso è
completamente paonazzo.
«È
messo male!» Penso e mi auguro di cuore di non arrivare così alla sua età.
Dovrebbe avere circa sessantacinque anni, ma deve avere avuto qualche problema
serio di salute perché anche il suo passo è incerto e pesante. Arrivo alla
fine della discesa in tutta scioltezza che cadono le prime gocce di pioggia. Ma
non avevano detto solo addensamenti nuvolosi? Mai che ne imbrocchino una! Allungo
il passo, non ho nessuna voglia di bagnarmi anche perché mi sono scordato di
portare il cambio.
Mentre
cerco con lo sguardo un sentiero che mi permetta di dimezzare la distanza che
mi separa dall’uscita, sopraggiunge un altro runner. È Gianni, lo
riconosco dalla mole - al suo cospetto mi sento come Masha e l’Orso, dove io
ovviamente non sono il plantigrado peloso - e dalla tipica andatura con la
testa a ciondoloni piegata sul petto e le braccia rigide lungo i fianchi.
Praticamente tutto quello che non bisogna fare durante la corsa. «Gamba buona
oggi, eh?» Butta lì, mentre procede incurante della pioggia che ormai cade
fitta.
Imbocco
il sentiero e accelero nel tentativo, non scientificamente provato, di schivare
più gocce possibili. Il fondo sterrato è ricoperto da ciò che un ecologista
definirebbe sottobosco, ma che per me sono solo foglie, ramoscelli, ghiande ed
erbacce rese scivolose dalla pioggia che adesso scroscia decisa. E succede
l’imponderabile. Le mie amate mi tradiscono, abbandonandomi al mio destino.
Le
suole slittano sul terreno sdrucciolevole e manco la presa. Il ginocchio
sinistro si piega e mi ritrovo all’improvviso a terra, lungo e disteso a pancia
in giù per meglio dire, e con le gambe che ancora frullano invano per aria. Che
visione indecorosa! Cerco di rialzarmi in tutta fretta, ma ricado peggiorando
le cose. Adesso ho due escoriazioni stampate come francobolli sulle rotule
invece di una! Mi guardo intorno per controllare che non ci sia nessuno in
vista, ma non deve essere la mia giornata fortunata.
«Vuole
una mano signore?» Mi chiede una voce suadente come una sirena. È
una jogger, snella e perfetta nella
sua tutina aderente e firmata. E non avrà neppure vent’anni.
«Tutto
a posto, grazie!» Bofonchio sistemandomi alla bell’e meglio.
Vita
dura ragazzi, vita da runner!
Creato
il 14/09/2015
Pubblicato
il 02/11/2016
Titolare
del Copyright: Daniela Quadri
Vita da runner. ...non fa per me.
RispondiEliminaLeggere comodamente seduta le fatiche del protagonista non ha prezzo. Bel racconto