venerdì 26 gennaio 2018

Recensioni & Co #19: Il sorriso del salice

                                                

                                Daniele Siri ci domanda: 
                                  qual è il tuo confine?


                       Ventimiglia e Portbou sono due città di frontiera, ma cosa significa "vivere sulla frontiera"? Ecco, questa è la domanda che Daniele Siri,  scrittore sanremasco la cui passione per la narrativa s'intreccia con quelle per la fotografia e le fortificazioni militari, si pone e, ovviamente, ci pone nel suo romanzo Il sorriso del salice, edito da Leucotea.


                       La frontiera non è solo un luogo fisico ma piuttosto un modo di interpretare l'esistenza; uno sradicamento dei sentimenti e delle emozioni, la perdita dell'identità e dei legami, da tutti e da sempre, considerati inviolabili: la famiglia, gli amici, i colleghi. Ed è così che vivono i protagonisti del romanzo che intreccia, in un crescendo di suspence e colpi di scena, le vicende di tre giovani: Anita, Gisele / Beatriz e Andrea.


                      Anita è un'architetto del verde che vive con la famiglia a Ventimiglia; i lavori che svolge nei giardini de La Maison Fleurì, una villa a Cap Ferrat, oltre alle ore di baby-sitting con Cinzia, una vispa e ciarliera bambina di dieci anni, aiutano a coprire le spese dell'assistenza al padre molto malato che ormai vive praticamente immobilizzato nella sua stanza. 


                    La villa di Cap Ferrat è abitata da personaggi misteriosi e di poche, pochissime parole: Jean, bello e impossibile mi verrebbe da definirlo, e Gisele, giovane donna che si dedica alla pittura dipingendo ritratti, tra cui quello di un uomo che subito colpisce l'immaginazione di Anita, quando un giorno entra nello studio e lo ammira di nascosto. Colta sul fatto da Gisele, ad Anita verrà chiesto di non rivelare mai a nessuno ciò che ha visto alla villa.

                   Gisele, in realtà Beatriz Navarra, vive sotto copertura, costretta a cambiare nome e aspetto, quando il nemico cerca di attentare alla sua vita e a quella dei suoi angeli custodi, tra cui Jean, poliziotto che, sotto una apparente scorza impenetrabile, nutre dei sentimenti per la sua protetta. Una vita da fuggitiva quella di Bea, sorella di Carlos Navarra, un poliziotto spagnolo che mi piace immaginare molto simile al Capitano Ultimo del nostrano film per la TV, che combatte la criminalità organizzata e in particolare i narco-trafficanti sudamericani il cui capo Jonas Vasquez è stato da lui arrestato.


                  Loschi traffici, uomini pericolosi che sullo sprezzo della vita altrui hanno fatto la loro fortuna e uomini coraggiosi che dello sprezzo della propria vita hanno fatto il loro credo, vittime e carnefici: non è mai facile distinguere dove finiscono gli uni e dove cominciano gli altri, quando si vive sul confine. Della legalità, della giustizia, dell'amore.


                Un confine che non tormenta e chiama solo i buoni in questo romanzo, ma diventa strumento, se non di redenzione, perlomeno di parziale riscatto di qualche personaggio cattivo. Penso a Joaquin Ortega, faccendiere brasiliano ed uno dei luogotenenti del boss Vasquez: un uomo che i giornali di tutto il mondo etichetterebbero come un delinquente incallito, un mostro senza cuore né pietà che invece, pur nella sua perversione e totale disfatta nell'alcol e nella droga, mostra ancora un briciolo di umanità. L'amore per sua figlia, la piccola e dolce Samantha che ama correre con il suo cane sulla spiaggia al tramonto, lo rendono padre, omicida e trafficante, ma, nonostante tutto, un padre che per il bene di sua figlia è disposto a superare il suo personale confine, e a mettere in secondo piano la caccia ai Navarra. 


                      Il punto cruciale è proprio questo: capire qual è il proprio confineLo sa bene Andrea, imbarcato sul Bruto, una vecchia bagnarola adibita alla manutenzione subacquea sotto le piattaforme petrolifere nell'Adriatico che, dopo aver iniziato una relazione virtuale con una donna misteriosa e sfuggente, decide di lasciare la vita sul mare, con tutte le rinunce e i sacrifici affettivi che questa comporta, e di riprendere la vita a terra, cominciando a ristrutturare la sua casa a lungo disabitata e abbandonata.  Mare e terra, terra e mare, non è forse questo un altro confine che i protagonisti del romanzo si troveranno a superare? 


                  E lo faranno ognuno a modo proprio, rinunciando alle comode certezze, a volte anche ai sogni, con la convinzione che l'unico atteggiamento vincente è quello del salice che sorride, come quello sul disegno che Andrea invia a Bea, la donna della chat, e come il logo sul biglietto da visita di Anita: un albero destinato al pianto che, invece, si ribella al proprio destino di infelicità e sorride.


                 Perché, sembrano dirci i tre ragazzi  tutti nati l'11 di agosto (non a caso la notte tra il 10 e l'11 è quella di San Lorenzo quando, per tradizione, si scruta il cielo per vedere una stella cadente ed esprimere un desiderio!), la vita è breve per aspettare a varcare il confine che ci separa dalla felicità.


                  E non c'è nulla che possa renderci più felici che scegliere di essere noi stessi e vivere appieno l'esistenza che ci appartiene. Un messaggio di grande positività che Daniele Siri riesce a trasmetterci attraverso un romanzo avvincente, molto ben ritmato ed equilibrato nell'intreccio e con uno stile diretto e d'impatto, ricco di termini marinareschi e anche di modi di dire dialettali che lo rendono ancora più vivo, e a tratti intriso della poesia del ricordo.


                 Per quanto mi riguarda, un'ottima prova di questo scrittore più che confermato. Un romanzo che vi consiglio!

             

domenica 21 gennaio 2018

Recensioni & Co #18: Una lettera lunga una vita

Una lettera lunga una vita:
Loredana Limone ci racconta la passione


Ma in ogni caso la vita è andata avanti, 
e nella mia (o di chiunque fosse) tutto è a posto. 
Lo ripeto e, credimi, non mento. Tutto a posto, già. Tranne te.

                  La lettera lunga una vita è quella che Assuntina Romano, ragazza del Vomero negli anni del secondo conflitto mondiale, scrive al suo innamorato di sempre, Mario. Una lettera che è una dichiarazione d'amore piena di ricordi, passione, addii e partenze che si susseguono e s'intrecciano tra la città partenopea e quella di Wilmington nel Nord Carolina.

                  Al tramonto usciva sul balcone e si lasciava crollare lentamente insieme al sole che declinava dietro la collina di Posillipo sotto una tavolozza di colori - viola lilla ocra arancio rosa - che, ignari del suo dolore o forse proprio a mo' di consolazione, si stemperavano nel mare meravigliosi quanto mai. 

                 L'amore tra Assuntina e Mario, che si conoscono quindicenni ad una festa di compleanno, nasce e cresce in un mondo a se stante quasi di fiaba, in quella Napoli  incantata che si stende sulla collina del Vomero con la Floridiana, l'Orto Botanico, Poggioreale, Santa Lucia, Mergellina, Pozzuoli fino a Procida e la spiaggia della Chiaiolella. Una Napoli la cui bellezza senza tempo è sfregiata dalla guerra e ammorbata dalla violenza e dalla povertà solo nei quartieri "giù". Una Napoli amata e sognata da Assuntina, quando ci sarà l'Atlantico a separarla dalla famiglia e dagli affetti più cari, una Napoli un po' matrigna che non si commuoverà alle sue lacrime e non risponderà alle sue preghiere di accoglierla nel suo ventre.

                  Ma la relazione tra Assuntina, figlia esemplare del Dottor Romano e dell'austera moglie Teresa di origini austriache, e Mario Attanasio, figlio di una donna non proprio per bene e del suo ultimo amante, un gerarca fascista, non è ben accetta dalla famiglia di lei. Ci si metterà poi la decisione di Mario, spirito inquieto e tormentato, di frequentare la Scuola Caccia di Lecce come allievo ufficiale pilota, e un moto d'orgoglio e qualche parola fuori luogo di Assuntina per separarli.

                  Assuntina finirà con lo sposare il bel soldato americano, Harry Watson, mentre Mario si farà una famiglia con Giovanna Russo, la donna al posto della quale Assuntina avrebbe voluto vivere la proprio vita. Accanto e prendendosi cura dell'unico uomo che abbia mai posseduto il suo cuore, Mario.

Quel quattro di maggio del '46 lei, da Assunta Romano, diventò Tina Watson. 
E traslocò in un'altra vita.

                 Incinta e già sposata con Harry, Assuntina si imbarcherà sulla Algonquin diretta a New York insieme ad altre quattro o cinquecento ragazze: altre spose di guerra come lei piene di speranze e paure, molte in attesa di bambini per metà statunitensi. Toccante e molto ben ricostruita a livello storico e umano è la storia di queste giovani donne italiane che partono per un paese sconosciuto, affidando il proprio destino e felicità a uomini che, nella maggior parte dei casi, hanno conosciuto per periodi abbastanza brevi.

                 In terra americana dove ha promesso a se stessa di non piangere mai, Assuntina cercherà di essere una buona moglie e una brava madre per le figlie che darà ad Harry: Rose e Sarah, anche se le cose non andranno come avrebbe sperato. La voce e il ricordo di Mario continuano a tormentarla, fino a quando la notizia della fine imminente della madre Teresa malata di cancro la farà tornare a Napoli.

                Rivedere Mario e tornare ad amarlo sarà una cosa naturale e inevitabile. Sarà come ritrovare l'altra metà del cuore, e le poche notti trascorse insieme colmeranno Assuntina di quella felicità desiderata per tutta la vita, ma alla quale entrambi hanno rinunciato troppo a lungo. L'amore che Assuntina vive con Mario è un amore fisico, carnale, un'esplosione di passione, ma è anche, e a me piace pensare soprattutto, un desiderio di normalità, di quotidianità. Un voler trasmettere al suo uomo - e Assuntina si domanda chi stia in realtà tradendo, Harry o Mario? - i propri sentimenti attraverso il cibo che gli cucina senza sosta, mettendoci cuore e anima, e prendendosi cura della sua persona. Un sogno che dura poco, perché Mario tornerà da Giovanna, la donna che in realtà lava e stira i suoi vestiti e lei salirà su un aereo per gli Stati Uniti.

Harry mi lasciò da sola a risolvermi, consegnò la sua parte di ferramenta al fratello e se andò in Vietnam.

                La pelle non s'inganna e Harry che ha compreso come le cose siano cambiate per Assuntina nei suoi confronti, decide di partire per il Vietnam da cui non farà più ritorno. Assuntina che si scopre incinta di Jessie, l'ultima figlia che nascerà già orfana del padre, non riuscirà a perdonarsi il sacrificio di Harry. Un sacrificio di cui si è resa partecipe per non aver fatto nulla per ostacolare, anche solo per affetto, decenza o pietà, la partenza del marito.

               Assuntina darà una svolta alla propria esistenza diventando una scrittrice famosa con i suoi romanzi ispirati da Mario e scritti per lui. Una vita che continua, nonostante tutto, con quel senso, mai sopito e lenito, di assoluta estraneità a se stessa, fino al giorno in cui Assuntina riceverà una telefonata da Bruno, il figlio di Mario. Mario è in ospedale per un attacco di cuore, ma a lei basterà sentire la sua voce e il suo richiamo per tornare alla vita, quella vera.

Perché finalmente, grazie a te, in terra d'America, sto piangendo, ma di gioia. 

              Una lettera lunga una vita è un'ulteriore conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno, della grande capacità di emozionare di Loredana Limone. Un romanzo commovente e vero come tutte le grandi passioni che decidono e cambiano l'esistenza umana. Una grande passione che Loredana Limone trasmette, pagina dopo pagina, con dolore e poesia: quella per la vita e per la sua Napoli.

                  
                  

venerdì 5 gennaio 2018

Dani #18: Nei campi



Nei campi
Un racconto di Daniela Quadri


L'anno scorso avevo partecipato al Concorso Letterario 2017 indetto da Cultora e dalla casa editrice Historica nella sezione racconti brevi. E, dopo qualche mese, avevo ricevuto la bella notizia: il mio racconto Nei campi era stato selezionato per far parte dell'antologia dedicata agli scrittori del Nord. Una bella soddisfazione, non c'è che dire, che entrerà nell'album dei miei ricordi di scrittrice di "belle speranze" :-)

Adesso non mi resta che proporvelo come faccio spesso con i miei scritti; chissà magari a qualcuno potrebbe anche piacere.

Buona lettura!




Il sole è a picco e il calore che sale dal terreno è soffocante. Se non fosse per il cielo di un azzurro accecante penserei di essere all’inferno, anche se non so quale crimine sto espiando. O forse sì: la povertà è una colpa che ci si porta addosso dalla nascita e che si trasmette come il peccato originale.
Chiedo alla caposquadra di potermi fermare un attimo per bere un sorso d’acqua, ma lei mi ride in faccia: dice che sono troppo vecchia per questo lavoro e che domani non dovrò scomodarmi, tanto ce ne sono altri che lo faranno al posto mio, senza lagnarsi.

Lavoro, dice.  Mi alzo tutte le notti alle tre; giusto il tempo di lavarmi la faccia e buttare giù un caffè che sa di bruciato - i miei figli li sfioro solo con un bacio per paura di svegliarli - e sono già per strada. Salto in sella alla bicicletta e pedalo al buio fino alla strada, dove ci aspetta il camion che ci porta nei campi. Siamo una trentina: stranieri, giovani, ma soprattutto donne. Donne come me che non hanno trovato niente di meglio per guadagnare qualche soldo con cui apparecchiare la tavola e comprare un paio di scarpe, ché non si può sempre andare in giro con i buchi nelle suole e arrivare a fine giornata con lo stomaco che borbotta dalla fame.

Io sono stata fortunata. Mi ha scelta il caporale per cui lavorava mio marito, prima che quel suo vizio di bersi la paga gli avvelenasse il fegato. Quante volte gli avevo urlato contro: ma che cosa aveva in quella testa vuota? Con cosa pensava potessimo tirare avanti, se continuava a buttare quei due soldi che guadagnava nel vino annacquato che compare Cerello vendeva giù all’osteria? Cosa gli passava per la testa l’avrei capito qualche anno dopo. Dopo che mio marito se n’era andato in ospedale e non era più tornato: cirrosi epatica esotossica, aveva detto a voce alta il dottore con il camice bianco agli studenti che lo seguivano prendendo appunti. Ma lo aveva detto con il tono sprezzante di chi sta pensando: un altro ubriacone col fegato marcio venuto a morire a spese dello stato.

L’avevo capito quando, dopo averlo sepolto in una bara di poco prezzo nel campo comune del cimitero in cima alla collina, mi ero presentata vestita a lutto a Don Vito, il suo caporale. Basso, panciuto, ma con i baffi ben curati e sempre con il cappello in testa, Don Vito era rimasto a fissare, cinque minuti in silenzio, la punta consumata dell’unico paio buono di scarpe che mi era rimasto. Forse stava commiserando la vedova di un altro ubriacone col fegato marcio che aveva trovato la maniera di non lavorare più nei campi o, forse, stava solo valutando se potevo farcela: a spaccarmi la schiena al posto suo. Domani mattina all’incrocio del Cane Pinto, prima che il cielo schiarisca, aveva detto, distogliendo lo sguardo scuro dalla punta consumata delle mie scarpe buone.

Un galantuomo, dicono di lui in paese, uno né meglio né peggio di tanti altri, penso io. Perché l’unica cosa di cui sono sicura è che, per loro, io sono una bestia da lavoro. No, non è vero; se un animale si ammala o si azzoppa viene curato perché altrimenti ci perdono soldi, ma se io muoio a questi non gliene frega niente! Tanto non c’è nessun contratto di lavoro, è tutto sulla parola: la mia contro quella di questi galantuomini.




Mi danno due euro all’ora e la mia giornata è di dodici ore. Mi chiamano bracciante, ma in realtà sono una schiava; mio figlio minore, che fa la terza media e sta studiando la Guerra di Secessione, mi ha detto che la schiavitù è stata abolita da Lincoln, ma io sono la prova vivente che sono tutte chiacchiere. Venisse a vedere questo Lincoln come ci trattano qui! Neanche una pausa per pisciare ci danno; la devi tenere finché la vescica non esplode e, allora, tante preferiscono farsela addosso, sennò quelli poi ti tolgono anche i soldi della sosta, oltre al pizzo per i caporali. Solo respirare ci è concesso, ché l’aria è ancora gratis e se non tiriamo il fiato schiattiamo tutte!



Ma se penso ai miei figli, anche questa schiavitù mi diventa leggera! Il piccolo è studioso – non so da chi abbia preso, perché sia io che suo padre abbiamo finito a fatica le elementari -, e da grande dice di voler fare il medico. Per curare quelli che hanno la stessa malattia di papà, dice sempre, e ride con quei suoi bei denti bianchi, quando io aggiungo che nessun medico ha ancora scoperto la cura per la povertà! Il maggiore, che sembra il ritratto di suo padre quando lo conobbi che avevo dodici anni, ha lasciato la scuola da tempo. I libri non facevano per lui, mi aveva detto un giorno e a scuola non c’era più tornato. Fa l’imbianchino ed è anche bravo, ma si arrabbia quando lo chiamo così. Perché lui è pittore e l’ha scritto sui bigliettini che si è stampato giù alla stazione: Mimmo, pittore a domicilio. Li ha lasciati in giro dappertutto, persino nella cassetta delle offerte per i poveri in chiesa, ma non è che l’abbiano chiamato in tanti. Però lui si alza tutte le mattine all’alba e gira con la bustina fatta di carta da giornali in testa: prima o poi capiranno che sono un bravo pittore, ripete.  

Fa caldo. È normale, qui a luglio si arriva anche a quaranta gradi, ma oggi mi gira la testa e non mi reggo in piedi. Il mio filare, quello che mi è stato assegnato, sembra non avere fine, o forse è la mia vista che si sta offuscando.  Non riesco più a distinguere i grappoli d’uva che si sdoppiano e danzano davanti ai miei occhi. Cerco riparo sotto un ulivo che fa da sostegno ai vitigni: slego il fazzoletto che mi ripara la testa e asciugo le gocce di sudore che mi inondano il viso. Lo strizzo e me lo rimetto sulla testa, ma pochi secondi dopo sono di nuovo in un bagno di sudore. Per fortuna la caposquadra non mi ha vista. Solo Annina si è accorta che qualcosa non va e mi ha chiesto se ce la faccio a finire tutto il filare. Sì, ce la devo fare, anche se mi viene da vomitare e vorrei gettarmi a terra e non alzarmi più.



Annina è una delle poche a cui questo lavoro non ha portato via il cuore; quando devi lottare per sopravvivere, pensare agli altri è un lusso che non ci si può permettere. Ma lei è diversa, lei dice che l’anima non appartiene ai morti, ma ai vivi e chi non ce l’ha è già morto senza saperlo. Annina aiutatutte la sfottono le caposquadra, che stanno a guardare senza muovere un dito, quando una di noi cade a terra: tanto c’è Annina ad aiutarla a rialzarsi o a darle il cambio per una pausa sotto il tendone, dove non passa un filo d’aria. 

Solida e resistente come una quercia, la sua pelle color del cuoio sembra respingere i raggi del sole che arroventa anche le pietre. Eppure c’è stato un tempo in cui era bella: occhi grandi e profondi come una notte senza stelle e un viso di Madonna. Don Vito l’avrebbe voluta, anche solo per una notte, ma lei il suo Pietro l’amava davvero. Pietro se n’era andato a cercare fortuna; faceva l’autotrasportatore su e giù per l’Europa a portare frutta e verdura, quella che cresceva e maturava sotto il sole del paese. L’aveva fatto per anni; ogni tanto mandava un po’ di soldi ad Annina che continuava a dire di no a Don Vito. Poi un giorno non era arrivato più nulla. Pietro aveva messo da parte soldi sufficienti a comprarsi un camion e, pare, anche a mettere su famiglia. Una nuova, in Germania. Annina non si era rassegnata: troppo orgogliosa per accettare la sconfitta, troppo fiera per lasciarsi andare. Aveva continuato a respingere le proposte di Don Vito, ma aveva dovuto accettare di lavorare per lui. Nei campi, dove cresceva e maturava la frutta e la verdura che avevano arricchito il suo Pietro.

Annina aiutatutte è stata lei ad insegnarmi a fare l’acinellatura: a controllare i grappoli uno ad uno e a togliere gli acini troppo piccoli e brutti ché, altrimenti, l’uva non la si vende al mercato se non è perfetta. E per farlo devo stare come Gesù sulla croce, con le braccia perennemente alzate al cielo.



Il sole è sempre più caldo, l’aria infuocata e io non resisto più. Sento la voce di Annina che grida aiuto e capisco che non rivedrò più i miei figli. Non ho nemmeno il tempo di affidarli a Dio, di pregarlo perché a loro non debba mai toccare tutto questo, che per me c’è solo buio e freddo.

Mi chiamo Assunta e sono morta nei campi a 59 anni. Chissà se, quando mi seppelliranno, si ricorderanno di mettermi le scarpe buone con la punta consumata: quelle che Don Vito fissava per capire quanto a lungo avrei resistito. Ma poco importa chi se le prenderà; a noi schiavi hanno già rubato tutto, anche la dignità.