mercoledì 21 marzo 2018

Dani #19: Pensieri e parole 3

Pensieri e parole... di Primavera!

E' da un po' di tempo che mancavo al mio appuntamento 
con le parole in poesia; un appuntamento che oggi, primo giorno 
di Primavera (almeno da calendario) voglio rinnovare.

Un inizio va sempre celebrato, per tutto quello che porterà con sé, 
per i sogni e le speranze che ci promette, e allora io lo faccio a modo mio, 
con queste mie riflessioni lente ai bordi dei ricordi
che mi azzardo a chiamare poesie.

Buon inizio a tutti voi!


In volo

Chiudo gli occhi
e lascio che il silenzio
inghiotta
anche l’ultima paura.

Sei volato lontano,
da questa terra che non ti appartiene,
da questa mano che non ti ha legato.

Gonfia il vento
le tue ali perfette,
mentre danzi nell’azzurro infinito,
e il sole s’inchina
ai tuoi sogni possenti

-    sali più in alto!    -

Ammutoliscono le voci
che ti acclamavano;
torre di sabbia sulla scacchiera
delle umane vanità
ora non sei più.

Il tuo battito libero
incanta le vette
che, di pura bellezza,
sfidano il respiro di Dio

 -lassù -

hai posto il tuo nido,
dove la grandezza degli uomini
è solo un’ombra lontana.

Chiudo gli occhi
e lascio che il silenzio
inghiotta anche l’ultima paura,
mentre volo
accanto a te.

Apri il cuore
e distendi le ali;
quando anche chi ti ama
dimentica il tuo nome,
tu puoi volare.

E ogni luogo dentro di te
sarà la casa 
a cui appartieni.

E ogni battito d’ali
sarà il luogo
a cui apparterrai.



La Musa


Parole scelte con cura,
sonagli incantati
s’affacciano al mondo
tintinnando

˗ altrimenti ˗
  
aggrappate l’une alle altre
in un’impossibile
architettura verticale
che non conosce equilibri.

A costruire mosaici
di suoni che puntano al cielo;
miraggi di sogni spezzati
all’alba di giorni senza luce

-   eppure  -

è un battito d’ali
che l’anima nuda dispiega tremante;
farfalle intinte
nel nero inchiostro

sul mare frusciante
d’una pagina bianca
che ammalia ricordi
celati nella sabbia del tempo.
  
Parole scelte con cura;
mi perdo dentro trame
incerte di veli opachi

- cos’è sogno ? -
- cos’è realtà? -

A tessere ricami inconsistenti
 così mi lasciano intendere,
ma è solo un inganno;
ed io sono il loro strumento.



Qualcosa di te

Ricordami i tuoi colori
quando mi insegnavi a leggere
l’arcobaleno.

Le  risate
quando con gli occhi chiusi
mi nascondevo al mondo.

Il sorriso
quando una lucertola sul muricciolo assolato
era un dono per te.

Le carezze
quando tornavo piangendo
a farmi ricucire
le ferite del cuore.

 I tuoi baci
rari e preziosi,
e  le  preghiere
con cui mi affidavi a quell’angelo
che ora è accanto a te.

Ricordamelo;
ogni volta che non riesco a trovarti
dentro di me.





Un giorno come tanti


Oggi, un giorno come tanti.
Eppure speciale di cose belle e normali: 
alzarmi e baciarti,
guardare la luce che ancora non si ritrae
e giocare con i pensieri;
magari poi cambiamo le lenzuola,
dentro questo letto disfatto
mi piace starmene a bere
il tuo tè affumicato
di spiagge lontane
e vasi di terracotta.

Fiori bianchi
dal profumo d'inverno;
lascia stare, lo facciamo domani,
io vorrei ancora un po’ di tè.

Steli lunghi
e colli d'aironi,
un velo di luce
sui tuoi occhi addormentati;
cose belle e normali,
averti accanto a me.

Un pezzo di pizza,
una fetta di torta e uno spicchio di notte
nella luce calda dell'abat-jour;
giura che niente sarà più come adesso
se non potrò saziarmi di te.

Oggi, un giorno come tanti.
Eppure speciale di cose belle e normali:
ascoltare la pioggia
che canta sui vetri,
scorgere un grazie
sulle tue labbra bagnate
e tenerti per mano;
c'è ancora tempo
per un altro ti amo.




La bambola rotta

Se le lacrime
fossero fiori,
i tuoi occhi
sarebbero un grande giardino.

Tu, bambola rotta,
tra le mute pareti
di un orrore
consumato in silenzio

-          chi ha lacerato il tuo abito bianco?   -

Tu, farfalla dalle ali color paradiso,
inchiodata alla nuda terra;
a che è servito pregare
un dio sordo alle tue grida?

Se le lacrime
fossero fiori,
questa terra
sarebbe un immenso giardino;

ma non è più tempo di lacrime
e le rose sono appassite
tra le mani di chi
invoca il tuo nome.




domenica 11 marzo 2018

Recensioni & Co. #22: Mi chiamo Lucy Barton

Mi chiamo Lucy Barton
Elizabeth Strout

Desideravo da tempo leggere questa scrittrice e, anche se non è il suo primo e forse nemmeno miglior romanzo, ho scelto Mi chiamo Lucy Barton. La storia mi intrigava: Lucy Barton viene ricoverata in ospedale per un'innocua appendicite che, a causa di un batterio sconosciuto, si trasforma in una lunga malattia che la costringe a una degenza di parecchie settimane. Lucy si sente sola, abbandonata e soffre la mancanza delle figlie, che le vengono portate in visita da un'amica che di figli suoi non ne ha, e del marito impegnato con il lavoro.

Ma un giorno, ai piedi del suo letto d'ospedale, Lucy troverà sua madre, o forse sarebbe meglio dire ritroverà. Dopo anni di lontananza e per la prima volta in vita sua la donna si è allontanata da Amgash, minuscolo paese dell'Illinois, dove abbondano le case diroccate, i campi di granturco e soia, gli allevamenti di maiali come in quasi tutti i paesi del Midwest, ha preso un aereo e poi un taxi, cosa che la terrorizza parecchio, è si è presentata dalla figlia.

A tenerle compagnia potrebbe sembrare, ma in realtà, nelle mia lettura, ci è andata per ritrovare se stessa e il loro rapporto madre-figlia: un rapporto interrotto, quasi congelato da un passato di miseria estrema, di emarginazione e di inadeguatezza nei confronti degli altri e della vita.

E questo rapporto si ricostruisce, con grande fatica da entrambe le parti, attraverso il racconto di episodi del passato che coinvolgono vicini di casa, parenti e conoscenti come Kathie Nicely, zia foca, i cugini Abel e Dottie, Marilyn Qualcosa, Mississippi Mary.

La madre la chiama Bestiolina, un vezzeggiativo che non usava da tempo e che scioglie quel grumo di tensione che Lucy sente dentro, e parla con un tono che Lucy non ricordava, come se tutte quelle sensazioni e sentimenti che non aveva mai espresso, adesso le uscissero in un sussurro disinibito.

E mentre la madre racconta e le sta accanto, aspettandola, seduta al buio nella sala d'attesa, nel sotterraneo dell'ospedale con le spalle curve per la sfinimento, uscire dalla Tac, Lucy ricorda a sua volta.

Ricorda la vita di una famiglia che fa schifo, come dicevano i suoi compagni di scuola, una famiglia poverissima che fino ai suoi undici anni aveva vissuto in un garage: il padre che perdeva spesso il lavoro e non aveva mai superato il trauma della guerra, la madre che faceva lavori di sarta per mettere insieme il pranzo con la cena, la sorella e il fratello che, a modo loro, cercavano di sfuggire a quella vita da feccia umana e lei...

Lei, Lucy Barton, che da piccola veniva lasciata sola nel furgone del padre e che perciò odia i serpenti, lei che con il cugino andava a cercare da mangiare nei cassonetti. 

Lei, Lucy Barton, che diventata donna, moglie e madre, cercherà di dimenticare quella Cosa del suo passato di cui mai riuscirà a parlare con la madre, e che le terrà lontane a tal punto da non essere in grado di dirsi un semplice ti voglio bene.

Ci vorranno molti incontri nella vita di Lucy, quello con Jeremy, Molly, Sarah Payne, un divorzio e un nuovo marito, perché lei possa riconciliarsi con il passato, con se stessa e con quella vita che la lascia sempre senza fiato.

Una storia che poteva essere il ritratto di una famiglia diversa ma che, pagina dopo pagina, si è trasformata nel racconto di una storia d'amore: l'amore sofferto, duro, quasi impossibile tra una madre e sua figlia, e quello, altrettanto complicato e mai risolto, tra una donna e il suo passato.

Devo dire che la prosa di Elizabeth Strout mi ha affascinata e a volte destabilizzata, forse perché riesce a toccare corde profonde e a smuovere sensazioni, se non ricordi personali, in cui ci riconosciamo in quanto esseri umani.

E Lucy Barton... beh l'ho amata per quel suo essere fragile, indifesa, vittima predestinata all'apparenza ma, invece, forte e padrona del suo destino, nonostante tutto.

Un romanzo che consiglio, buona lettura!

domenica 4 marzo 2018

Recensioni & Co #21: Le nostre anime di notte


Le nostre anime di notte
Kent Haruf

                       Nella cittadina immaginaria di Holt, in Colorado, un giorno la vedova Addie Moore bussa alla porta del suo vicino Louis Waters, ex professore di letteratura anch'egli vedovo, e gli fa una proposta sorprendente e scandalosa: ti andrebbe qualche volta di venire a dormire da me?

                        Sorprendente perché i due, anche se vicini di casa da anni, si conoscono poco. Scandalosa perché i due hanno ormai passato la settantina.
                        
                        Così ha inizio una relazione che, dopo l'imbarazzo iniziale, continua e cresce con il ritmo lento della vita di provincia, in un lembo di terra disegnato da distese di stoppie a perdita d'occhio.
                        
                        Una relazione fatta di tenerezza, complicità, ricordi e racconti di esistenze sopravvissute a tradimenti, disgrazie e assenza di contatto e calore umano ma, al tempo stesso, forte e densa: di quella urgenza di vivere ogni istante, di esserci l'uno per l'altra che si fa ancora più pressante quanto più imminente è la fine che si avvicina.
                        
                       Eppure questa lenta inesorabilità, che in altre mani sarebbe stata dolorosa e senza speranza, nell'ultimo romanzo di Haruf diventa un inno, sommesso e delicato, all'amore che non conosce l'inverno degli anni, che risveglia passione e sesso, fregandosene degli acciacchi del corpo.
                        
                       Haruf racconta la poesia della quotidianità di vite normali; e allora sembra di essere lì con i suoi personaggi a mangiare un hamburger, vedere una partita di softball, assistere a una sfilata di auto, trattori e trebbiatrici, fare un picnic in riva al fiume, campeggiare guardando le stelle nel buio della notte, scegliere un cane, magari quello più timido con una zampetta acciaccata, perché possa giocare con il nipotino.
                       
                      Una relazione improbabile che supera le maldicenze dei perbenisti e l'invidia di chi vorrebbe poterne vivere una uguale, ma non lo fa per paura o ipocrisia condannandosi alla solitudine, e cede invece al ricatto morale più crudele, quello di un figlio.
                       
                      Addie e Louis, separati da un incidente all'anca di lei, dalla lontananza e dalla vita che non perdona l'età e i sentimenti, nemmeno quelli più veri e profondi, troveranno il mezzo per tenersi in contatto; perché il verbo esserci per un'altra persona può essere declinato in migliaia di modi e circostanze. 
                     
                     Un romanzo che amo e che consiglio caldamente, non solo per il talento di Haruf, ma anche per il messaggio, che impregna ogni singola pagina, dichiarato per bocca di un personaggio: mi fa pensare che anche per qualcun altro ci possa essere speranza.
                      
                      La speranza di amare ed essere amati, sempre.