mercoledì 25 gennaio 2017

Pagina # 14: Vivien Maier

Alla scoperta di… Vivien Maier 

Metti una domenica pomeriggio di gennaio in centro Monza: abbastanza fredda da farti desiderare un posto al coperto, dove poter vedere qualcosa di mai visto prima e , soprattutto, sorprendentemente affascinante. 

Pensa all'Arengario e il gioco è fatto! Perché proprio nella sala dell'antico arengo ha trovato spazio la mostra fotografica dedicata a Vivien Maier.

Se a tutto ciò si aggiunge l'alone di mistero che circonda la vita e l'opera di questa fotografa, allora l'esperienza diventa addirittura entusiasmante.

Vivian Dorothea Maier nasce a New York  nel 1926 da madre francese e padre austriaco, trascorre l’infanzia in Francia, e ritorna negli Stati Uniti negli anni 50. Dopo aver lavorato per un breve periodo a New York in una fabbrica, Vivian  decide di trasferirsi a  Chicago,  dove inizia a svolgere la professione di tata.  Nell’ultima parte della sua vita  attraversa un periodo d’indigenza e si ritrova costretta a ricorrere all’assistenza sociale per non finire sulla strada;  fortunatamente le vengono in aiuto tre dei suoi ex bambini, che acquistano  per lei un appartamento. Nel 2008 Vivian  scivola sul ghiaccio,  riportando una grave ferita  alla testa.  Muore l’anno successivo a Chicago, all’età di 83 anni.

La vita di Vivian Maier sembrerebbe una vita anonima, se non fosse che questa tata, definita una persona solitaria e riservata da chi la conosceva, girava sempre con una Rolleiflex al collo, con cui scattava foto che non mostrava mai a nessuno. La sua passione per la fotografia era assolutamente fuori dal comune, e con il passare degli anni Vivian accumulò una quantità di materiale davvero impressionante: centinaia di migliaia di foto e negativi, filmati e registrazioni di conversazioni con i soggetti delle sue foto. 

Il tesoro nascosto di Vivian era conservato in numerosi scatoloni che si trascinava dietro spostandosi, per via del suo lavoro di tata, da una famiglia all’altra. Si parla di centinaia di contenitori, che negli ultimi anni della sua vita (quando Vivian  non era stata più in grado di pagarne il deposito presso un magazzino) sono finiti in vendita in alcune aste locali. 

Il proprietario della maggior parte dell’archivio Vivian Maier è di fatto John Maloof. Agente immobiliare e storico, questi partecipa nel 2007 a un’asta locale, e ha la fortuna di acquistare per soli 380 dollari uno scatolone in cui rinviene circa 30.000 negativi della Maier. Impressionato dalla bellezza di quelle foto anonime, riesce ad avere conferma del loro potenziale valore dopo averne pubblicato alcune su un sito di fotografia.

Maloof attualmente possiede circa 100.000 foto dell’archivio di Vivian, il cui indubbio valore è stato ormai riconosciuto ufficialmente: Vivian Maier viene oggi annoverata tra i più grandi fotografi di strada d’America del XX secolo e il suo lavoro viene presentato in giro per il mondo attraverso mostre, articoli su riviste, documentari. 
La mostra all’Arengario raccoglie 120 fotografie in bianco e nero realizzate tra gli anni Cinquanta e Sessanta, insieme a una selezione di immagini a colori scattate negli anni Settanta, oltre ad alcuni filmati in super 8 che mostrano come Vivian Maier si avvicinasse ai suoi soggetti.

Vivian Maier ritraeva le città dove aveva vissuto – New York e Chicago – con uno sguardo curioso, attratto da piccoli dettagli, dai particolari, dalle imperfezioni, ma anche dai bambini, dagli anziani, dalla vita che le scorreva davanti agli occhi per strada, dalla città e i suoi abitanti in un momento di grande cambiamento sociale e culturale. Immagini potenti, di una folgorante bellezza, quasi tutti scatti assoluti, che rivelano una grande fotografa.

Sono inoltre esposti numerosi autoritratti, dove il suo sguardo austero è riflesso nelle vetrine, nelle pozzanghere, e la sua lunga ombra incombe sul soggetto della fotografia, diventando un tramite per avvicinarsi a questa fotografa che, nella sua vita, non ha mai voluto o potuto condividere i suoi scatti con un pubblico.

La pulsione di Vivian Maier a rimanere invisibile dietro l’obiettivo, le consente, paradossalmente, di stabilire una istantanea relazione con il soggetto fotografato, di cui, grazie alla sua straordinaria abilità, riesce a cogliere in una frazione di secondo le emozioni più profonde.

Gli scatti che più mi hanno colpito di questa fotografa, che scattava solo per se stessa, leggeva libri di fotografia e andava alle mostre per studiare il lavoro di altri fotografi, sono quelli che vengono definiti street photography:  bambini, anziani, emarginati, gente incontrata per caso, attori di Hollywood, di cui coglieva espressioni e dettagli, creando composizioni di una bellezza istintiva, propria di un artista puro. 


































































Capire adesso chi era Vivien Maier sembra quasi impossibile; si può solo intuire il perché, il come e il quando dei suoi scatti. Ma quello che vediamo per certo nelle sue fotografie è l’umanità attenta a cogliere la quotidianità dei suoi simili. E questo ci basta, o almeno a me è bastato, per apprezzare il genio di questa fotografa enigmatica.

martedì 17 gennaio 2017

Dani #7: Una domenica con Penna Nera

Un racconto da leggere a Natale

            Domenica 15 gennaio, 2017 è stata una giornata speciale in quel di Mariano Comense; ho conosciuto la ONLUS Penna Nera che si occupa di ragazzi disabili e della loro integrazione, ho assistito all’esibizione dei giovani talenti musicali dell’orchestra La FlautoMagico e ho partecipato alla finale e premiazione del Concorso Un racconto da leggere a Natale classificandomi al secondo posto nella sezione adulti (ahimè quella dedicata ai giovani si fermava purtroppo a soli 35 anni…).

            Un pomeriggio piacevole con tanta simpatia e umanità; un presidente inossidabile, un presentatore ispirato, concorrenti dalle penne ben affilate, un pubblico partecipe e tanta emozione (non so se si vede dalle foto pubblicate su il quotidiano La Provincia di Lecco, Como e Sondrio, ma un lieve tremolio alle mani c’era!).


            Una bella esperienza che rivivrà sempre tra le righe di questo racconto, che spero vi trasmetta le stesse emozioni che ho provato scrivendolo.

             Un grazie speciale ad Andrea (lui sa perché!).

Sarà un bel Natale

    Ho otto anni e mi piace guardare la neve che scende, in fiocchi soffici e leggeri, che si sciolgono sui vetri della finestra. Era bello quando avevamo una casa con tante stanze e tante finestre. Adesso viviamo in un Map. La chiamano così quella casetta prefabbricata di legno in cui siamo andati ad abitare, dopo che la terra si è messa a tremare, dopo che la nostra casa, nel centro del paese, si è sbriciolata sotto i nostri piedi.

    Ricordo che la camera dove dormivamo io e mia sorella Cecilia ha preso a sobbalzare nel cuore della notte, le pareti si sono aperte come colpite da un enorme bulldozer e, all’improvviso, il pavimento è sprofondato e siamo precipitati in cucina al pianterreno. Cecilia piangeva forte e io cercavo di stringerle la mano, ma non ci riuscivo perché tra di noi c’era una grossa trave caduta dal soffitto. Tutt’intorno era buio e facevo fatica a respirare per i calcinacci che mi coprivano. Ho provato a gridare, ma nessuno ci sentiva e Cecilia, a un certo punto, ha smesso di piangere anche se la chiamavo forte. Poi ho chiuso gli occhi e ho pensato che avrei dormito un po’, ma solo per riposare.

     E invece mi hanno detto che ho dormito tanto, quasi un giorno intero. Me l’hanno detto gli uomini con le tute gialle che ci sono venuti a cercare col loro cane: Benny, un pastore tedesco dal pelo marrone e le orecchie nere. Benny è molto brava, le basta annusare l’aria per capire se ci sono persone vive da salvare, e gli uomini con le tute gialle la seguivano e scavavano con le mani dove Benny si fermava e abbaiava. È così che ci hanno trovati: io, mamma e papà che erano finiti giù in cantina. Mamma aveva una gamba rotta e papà la spalla, tre costole e un taglio sulla testa. Cecilia l’hanno trovata il giorno dopo. Benny continuava ad abbaiare e a scodinzolare, ma gli uomini non riuscivano a vederla. Cecilia è sempre stata piccola e magra, e a volte tornava da scuola piangendo perché qualche compagno più grande la prendeva in giro. Era infilata sotto la trave che ci aveva diviso, ecco perché non la vedevano. Quando l’hanno tirata fuori, piano piano per non farle male, Benny le si è avvicinata per leccarle il viso che era tutto sporco di terra. L’hanno messa su una barella e l’hanno portata all’ospedale, ma in un reparto diverso da quello dove stavamo io, mamma e papà.

    Poi è successo che il cuore di Cecilia era troppo stanco e lei era debole per la fatica che aveva fatto a stare sotto quella grossa trave. Così anche lei ha chiuso gli occhi per dormire, ma il suo angelo custode ha deciso di portarla via con sé e adesso anche lei sta in cielo, con nonno Piero e nonna Rosa e da lassù ci guardano e ci proteggono. Così mi dice la mamma quando recitiamo insieme le preghiere della sera, ma io vedo che i suoi occhi diventano lucidi e lei si fa in fretta il segno della croce e corre subito a chiudersi nella sua stanza. Ogni tanto la sento piangere, non forte come Cecilia, più basso come un lamento, ma la mattina dopo mi sveglia con un sorriso e mi dice che la colazione è pronta.

   Ho otto anni e mi piace guardare la neve che scende, in fiocchi soffici e leggeri, che si sciolgono sui vetri della finestra.  Anche la mia scuola è caduta quando la terra si è messa a tremare. La mia classe era la terza D, l’ultima in fondo al corridoio che non c’è più. È ancora la mia classe, anche se adesso la scuola è fatta di tante casette colorate, bianche, rosse, gialle e blu, con intorno giochi e altalene in mezzo al campo sportivo dove una volta andavo a giocare a pallone. La maestra è sempre la stessa e c’è anche la campanella che suona per farci entrare e uscire.

   Solo che non abbiamo più i vecchi banchi, dove avevamo scritto di nascosto i nostri nomi, ma tavoli nuovi e puliti. E libri, quaderni, matite colorate e tanti peluche; ce li hanno regalato altri bambini che stanno in altre scuole e che hanno pensato a noi. E facciamo tutti i giorni disegni da appendere alle pareti vuote, con parole scritte a pennarello: amore, pace, felicità, allegria, sorrisi, amici.  Solo che qualcuno dei miei compagni non c’è più; è andato a trovare Cecilia e adesso sono sicuro che giocano insieme e non la scherzano più.

   Ho otto anni e mi piace guardare la neve che scende, in fiocchi soffici e leggeri, che si sciolgono sui vetri della finestra.  Tra pochi giorni sarà Natale: mamma e papà mi hanno domandato che dono vorrei e io ho risposto che ci devo pensare. Non è facile chiedere un regalo a Natale, quando ti mancano tante cose. Una casa con tante stanze e tante finestre, una scuola coi vecchi banchi col tuo nome scritto sopra, i compagni di giochi e Cecilia. Dovrà essere un regalo molto speciale, per non sprecare un desiderio, per tornare di nuovo ad amare il Natale. Papà ha portato a casa un piccolo abete e l’ha messo in un vaso in cucina. Mamma ci ha appeso dei nastri e dei biscotti che ci hanno dato le signore che preparano i pasti sotto al tendone. La maestra mi ha detto che quest’anno farò San Giuseppe nella recita di Natale,  ma non sono ancora riuscito a trovare il mio regalo speciale.

   La neve cade, in  fiocchi  soffici e leggeri, e copre  ogni cosa di
bianco. Manca solo un giorno a Natale e oggi gli uomini con le tute gialle mi hanno portato da Benny. Lei stava sdraiata per terra e quando mi ha visto ha cominciato ad abbaiare. Io mi sono avvicinato e lei mi ha leccato la mano.  C’erano tanti cuccioli intorno a lei, col pelo marrone e le orecchie nere. Solo uno aveva le orecchie bianche come la neve. Un uomo con la tuta gialla me l’ha messo in braccio e io ho sentito sul petto il suo calore che mi scaldava il cuore. L’ho stretto forte e l’ho portato a casa. L’ho chiamato Fiocco, come diceva Cecilia quando guardava cadere la neve insieme a me.

    Ho otto anni e ho trovato il mio regalo speciale. Adesso lo so, sarà un bel Natale!
  

  

mercoledì 11 gennaio 2017

Pagina # 13: Italian, my love!

10 Reasons to Fall in Love with the Italian Language

10 Motivi per Innamorarsi della lingua Italiana


È risaputo che noi Italiani siamo i primi detrattori dell’Italianità, a partire dalla nostra lingua, ma – udite, udite! – pare che, invece, gli stranieri la adorino (insieme al cibo, alla natura, alla cultura, all’arte, alla musica e agli abitanti della Penisola).

A dirlo sono in tanti e, tra i tanti, ho scelto Dianne Hales che al suo amore per la lingua italiana ha addirittura dedicato un libro, al quale fanno da cappello i 10 motivi che l’hanno spinta da sempre ad amare il nostro idioma.

Ho volutamente evitato di tradurli perché la contrapposizione tra le espressioni in italiano e quelle in inglese sarebbe, logicamente, andata persa; fenomeno noto ai più come il titolo del film  Lost in translation.

Quindi, armatevi di santa pazienza, leggete il decalogo della Hales e vedrete che resterete sorpresi di come e quanto la lingua italiana sia apprezzata e amata nel mondo.

1. Italian is “beautiful, fun and sexy.” That’s how people perceive Italy and its language, Stephen Brockman, a professor at Carnegie Mellon University, observes in an essay called “In Defense of European Languages.” “Why not?” he adds. “I can’t see anything wrong with that.” Neither can I.

2. No other language is more romantic. All the Romance languages evolved from the volgare (vernacular) of ancient Rome. Yet none may have so many seductive ways of expressing amore: Ti amo, mio tesoro (I love you, my darling) for l’amore della tua vita (the love of your life). Ti voglio bene (for all others). Voglio soltanto te (I want only you). Vieni qui e baciami (Come here and kiss me.) Ti adoro (I adore you).

3. Everything sounds better in Italian. An ordinary towel becomes an asciugamano; a handkerchief, a fazzoletto; a dog leash, a guinzaglio. Garbage isn’t mere trash. In Italian, it’s spazzatura. Italian’s linguistic pantry is stuffed with words delicious enough to eat, such as cappellacci di zucca (pumpkin-stuffed pasta shaped like caps), ciambellone (ring cake), sospiri di monaca (a nun’s sigh), tiramisù (pick-me-up) and lacrime d’amore (tears of love), candy sugar pearls filled with sweet syrup.

4. You can use your hands—a lot! In Italian speaking without gestures is like writing without punctuation. Hands become commas, exclamation points and question marks. Who even needs words when a tug at a bottom eyelid translates into "Attenzione!" ("Watch out! Pay attention!"), a straight line drawn in the air as “Perfetto!” and fingers flicking upward from the neck past the tip of the chin as "Che me ne frega" ("I don't give a *&#@!"). 

5. Italian has become the new French. With only an estimated 60 to 63 million native speakers (compared to a whopping 1.8 billion who claim at least a little English), Italian barely eclipses Urdu, Pakistan’s official language, for nineteenth place as a spoken tongue. Yet Italian ranks fourth among the most studied languages—after English, Spanish, and French, which Italian now rivals as a language of culture and refinement.

6. You can immerse yourself in an Italian masterpiece. You can’t sculpt like Michelangelo, paint like Leonardo or design like Armani. But you can read and speak the language that 14th century poets—Dante first and foremost—crafted from the effervescent Tuscan vernacular. Handpicked by writers and scholars in the first official Vocabolario in any Western tongue, Italian words represent “i più bei fiori” (the most beautiful flowers) in the language.

7. Speaking Italian may be the closest many of us get to singing. What makes Italian so musical are its vigorous vocali (vowels): An Italian “a” slides up from the throat into an ecstatic “aaaah.” Its “e” (pronounced like a hard English “a”) cheers like the hearty “ay” at the end of hip-hip-hooray. The “i” (which sounds like an English “e”) glides with the glee of the double e in bee. The “o” (an English “o” on steroids) is as perfectly round as the red circle Giotto painted in a single stroke for a pope demanding a sample of his work. The macho “u” (deeper, stronger and longer than its English counterpart) lunges into the air like a penalty kick from Italy’s world-champion soccer team, the Azzurri (Blues).

8. Italian may be our universal mother tongue. Dating back almost three millennia, its primal sounds—virtually identical to those that roared through Roman amphitheaters thousands of years ago—strike a chord in our universal linguistic DNA. According to some scholars, Italian may come closer than any other idiom to expressing what it means to be human.

9. You’re never too young—or too old—to learn Italian. As brain scans have shown, groping for even the simplest words in a different language sparks new clusters of neurons and synapses. Within weeks in an all-Italian class, preschoolers understand everything happening around them. It takes longer as we get older, but learning a second language later in life provides a different advantage: It helps stave off dementia.


10. Italians. The more you know of their language, the more you’ll realize how right the British author E.M. Forster was when he urged visitors to drop “that awful tourist idea that Italy’s only a museum of antiquities and art.” His advice: “Love and understand the Italians for the people are more marvelous than the land.” Indeed they are. And if you’re of Italian descent, cherish Italy’s language as a marvelous part of your heritage.




Dianne Hales è una famosa giornalista freelance Americana che collabora con molte testate e riviste di diffusione nazionale e internazionale:  Family Circle, Fitness, Glamour, Good Housekeeping, Health, Mademoiselle, McCall's, New York Times, Psychology Today, Readers' Digest, Redbook, Science Digest, Self, Seventeen, Washington Post, Woman's Day e World Book. 

È inoltre autrice di La Bella Lingua: My Love Affair with Italian, the World’s Most Enchanting Language e di Mona Lisa: a life discovered.

Se volete saperne di più, potete visitare il suo sito web http://becomingitalian.com   

giovedì 5 gennaio 2017

Pagina # 12: Tuttomondo

TUTTOMONDO
Il murale di Keith Haring a Pisa

         Quanti di noi sono stati a Pisa e sono rimasti incantati dalla bellezza senza tempo della Torre, del Duomo e del Battistero? Ma quanti hanno anche cercato e ammirato il murale del celebre graffitaro americano, Keith Haring? Pochi immagino, perché questa sua opera non è, purtroppo, conosciuta ai più.

         L'idea di realizzare un murale a Pisa nasce, casualmente, dall’incontro per strada a New York tra Haring e un giovane studente pisano. Il tema è quello dell'armonia e della pace nel mondo, reso visivamente attraverso i collegamenti e gli incastri tra le 30 figure che, come in un puzzle, popolano i centottanta metri quadrati della parete del Convento di Sant'Antonio. 

       Ogni personaggio rappresenta un diverso "aspetto" del mondo in pace: le forbici "umanizzate" sono l'immagine della collaborazione concreta tra gli uomini per sconfiggere il serpente, cioè il male, che è colto nell’atto di mangiare la testa della figura accanto, la donna con in braccio il bambino rimanda all'idea della maternità, mentre i due uomini che sorreggono il delfino ricordano il rapporto con la natura. 

     Haring scelse colori dalle tonalità tenui, che attenuavano la violenza cromatica che lo aveva sempre contraddistinto, recuperando in parte i colori dei palazzi pisani e della città nel suo complesso, per rendere l'opera compatibile con il contesto socio ambientale dove è collocata. 

     È l'unica opera di Haring che venne concepita sin dall'inizio come "permanente"; non destinata cioè a scomparire nell'uso o nella serialità della comunicazione di massa. Infatti l’artista impiegò una settimana ad eseguirla, rispetto all'unico giorno con cui era abituato a realizzare gli altri murales. Il primo giorno disegnò da solo la linea di contorno nera, senza bozzetto preparatorio, poi nei restanti giorni, aiutato dagli studenti e artigiani della Caparol Center, che fornirono le tempere acriliche in grado di mantenere a lungo intatta la qualità dei colori, eseguì la colorazione. 

    Il murale ha insolitamente un titolo: "TUTTOMONDO", parola che riassume la sua costante ricerca di incontro e di identificazione con il pubblico, esemplificata in questo caso dal personaggio giallo che cammina, o che corre, posto al centro della composizione sullo stesso piano di un ipotetico passante. 

     I trenta personaggi del murale hanno la vitalità e l'energia tipiche di Haring e del suo incessante fervore creativo che gli ha consentito di lasciare, pochi mesi prima della morte per Aids a soli 31 anni nel 1990 a New York, un'opera che è prima di tutto, un inno alla vita.

dal 20.2.2017 al 18.06.2017 a Palazzo Reale, Milano

       A quasi 30 anni dalla sua morte, Milano gli dedica una grande mostra che è un viaggio colorato e allegro tra le sue opere, vitali e sempre in movimento, ispirate ai cartoni animati di Walt Disney, alla grande arte di Dubuffet, Jackson Pollock, Paul Klee e soprattutto alla Pop Art di Andy Warhol e all'arte di Alechinski.

      Per chi vuole conoscere meglio questo artista è un'occasione imperdibile!




martedì 3 gennaio 2017

Pagina #11: Viva, viva la Befana!


Viva, viva la Befana!

          Tra qualche giorno sarà l’Epifania che, nei miei ricordi di bambina, era preceduta dalla notte più magica e spaventosa dell’anno: la notte in cui la Vecchina – una specie di clochard vestita di stracci, bizzarra e piuttosto dispettosa che decideva a quali bambini portare dolci e a quali carbone – volava nel cielo a cavallo di una scopa , riuscendo, non si sa come, a riempire migliaia di calze appese in ogni dove.

      Ho sempre provato una sorta di timoroso rispetto verso la Befana; donna indipendente, alternativa, sicura di sé al punto di fregarsene dei giudizi della gente e dell’estetica! Una tosta che sapeva il fatto suo e non cedeva alle lusinghe o ai piagnistei: 

sei stata brava? Allora avrai un dono
sei stata cattiva? Niente per te!

        La Befana come antesignana della donna moderna: sempre di corsa, con mille faccende da sbrigare e un’enorme borsa in cui trasporta, praticamente, tutti i suoi oggetti più cari. Beh, non c’è niente di strano! E quindi, vietati gli sfottò, oggi mi sento, ancora una volta, di gridare: Viva, viva la Befana!

       E per festeggiare come si deve la mia amata Vecchina, ho scelto alcune delle più belle filastrocche che le sono state dedicate dal grande Rodari. 

Buona Befana a tutti!
alla Befana 
 Gianni Rodari

Mi hanno detto, cara Befana,
che tu riempi la calza di lana,
che tutti i bimbi, se stanno buoni,
da te ricevono ricchi doni.
Io buono sono sempre stato
ma un dono mai me l’hai portato.
Anche quest’anno nel calendario
tu passi proprio in perfetto orario,
ma ho paura, poveretto,
che tu viaggi in treno diretto:
un treno che salta tante stazioni
dove ci sono bimbi buoni.
Io questa lettera ti ho mandato
per farti prendere l’accelerato!
O cara Befana, prendi un trenino
che fermi a casa d’ogni bambino,
che fermi alle case dei poveretti
con tanti doni e tanti confetti.

Befana
 Gianni Rodari

Viene viene la Befana
Da una terra assai lontana,
così lontana che non c’è…
la Befana, sai chi è?
La Befana viene viene,
se stai zitto la senti bene:
se stai zitto ti addormenti,
la Befana più non senti.
La Befana, poveretta,
si confonde per la fretta:
invece del treno che avevo ordinato
un po’ di carbone mi ha lasciato.

La Befana Spaziale – Il pianeta degli alberi di Natale 
 G.Rodari

Su quel pianeta la Befana
viaggia a cavallo di un razzo
a diciassette stadi
e in ogni stadio
c’è un bell’armadio
zeppo di doni
e un robot elettronico
con gli indirizzi dei bambini buoni.
Anzi con gli indirizzi
di tutti i bambini, perché
ormai s’è capito
che di proprio cattivi non ce n’è.

Voglio Fare un Regalo alla Befana – Il pianeta degli alberi di Natale
 G.Rodari

La Befana, cara vecchietta,
va all’antica, senza fretta.
Non prende mica l’aeroplano
per volare dal monte al piano,
si fida soltanto, la cara vecchina,
della sua scopa di saggina:
è così che poi succede
che la Befana… non si vede!
Ha fatto tardi fra i nuvoloni,
e molti restano senza doni!
Io quasi, nel mio buon cuore,
vorrei regalarle un micromotore,
perché arrivi dappertutto
col tempo bello o col tempo brutto…
Un po’ di progresso e di velocità
per dare a tutti la felicità!

lunedì 2 gennaio 2017

Dani #6: L'altalena della vita


             L’altalena della vita è il titolo del mio racconto, premiato con la pubblicazione nell’antologia La finestra sui racconti, Laura Capone Editore, tra i vincitori della sezione Narrativa della IV ed. Premio Nazionale Letteratura Italiana Contemporanea, 2016.

          Ha rappresentato per me un momento di riflessione; malinconica e sognante, ma sempre piena di speranza e amore per la vita. E proprio per questo voglio condividerlo con voi in questo nuovo inizio d’anno


               Buona lettura e Buon Anno a tutti!


L’ALTALENA DELLA VITA

Da quando Pedro se n’è andato, la casa sembra ancora più grande e il silenzio è così denso che mi prendono le vertigini. Vorrei uscire a respirare un po’ d’aria sgombra di ricordi e rimpianti, ma non ce la faccio neppure ad alzarmi dal tavolo della cucina, dove un piatto ancora mezzo pieno e un bicchiere sbeccato mi rimproverano desolati.

Eppure un tempo questa casa risuonava di voci e risate e la cucina era sempre affollata di amici che arrivavano all’improvviso per chiacchierare e poi si fermavano fino a tardi; tanto da Pedro e Maria un piatto di maccheroni e una bottiglia di vino rosso non mancavano mai.

Guardo fuori dalla finestra che dà sul giardino; non c’è un alito di vento e le foglie delle palme, sferzate dai raggi implacabili dello zenit, pendono immobili come bandiere ammainate davanti al nemico vittorioso.

Esattamente come il mio tempo adesso: quello della resa. Già quel tempo che come un gatto sornione ti fa credere che non finirà mai di stupirti e rallegrarti con le sue dolci fusa, per poi graffiarti, così per capriccio quando meno te lo aspetti, proprio mentre ti sta leccando con la sua lingua ruvida come una raspa. Solo per farti capire che lui, il tempo, fa quello che gli pare, e che è lui a decidere quanto a lungo ti si concederà.

Nell’angolo più soleggiato del giardino, accanto agli oleandri dai fiori così fitti che paiono enormi grappoli d’uva matura, quello rosa l’avevamo piantato quando era nata Clelia e quello rosso quando era arrivato Carlos tre d’anni dopo, c’è ancora l’altalena.

Pedro l’aveva costruita con una tavola di legno a cui aveva agganciato due lunghe cime, le stesse con cui legava al molo la barca a motore con la vecchia lanterna a petrolio che tante notti l’aveva accompagnato nelle sue uscite verso Capo Orso, dove enormi banchi di sardine argentate guizzavano al chiarore della luna, e l’aveva fissata al ramo più basso e robusto di un pino. 

Osservo l’altalena sbattendo le palpebre che ormai pesano sui miei occhi stanchi: lentamente, quasi impercettibilmente, colgo un movimento che diventa sempre più deciso e cadenzato. L’altalena ha ripreso a dondolare nell’aria immobile di un altro inutile giorno di attesa.

«Papà, papà corri! Carlos non vuole lasciarmi l’altalena. Diglielo tu che adesso tocca a me!» Clelia urla con i pugni piantati sui fianchi cercando di attirare l’attenzione di Pedro, addormentato sulla sedia di vimini in veranda con le braccia abbandonate sull’addome e il cappello abbassato sugli occhi. Sembra dormire profondamente, ma il sorriso che gli arriccia gli angoli della bocca mi dice che sta solo fingendo.

Pedro è innamorato di sua figlia e farebbe qualsiasi cosa per lei. Anzi in realtà l’ha già fatto molte volte. Burbero fino all’ombrosità, e poco incline a gesti e parole di tenerezza anche nella nostra intimità, è sempre stato incapace di resistere ai capricci e alle moine di Clelia.

Le basta tirare un po’ su col nasino a patata e sbattere gli occhioni color cioccolata, perché suo padre, quell’omone forte come un toro e con la pelle rugosa ispessita dalla salsedine, si pieghi a ogni suo volere. Come quando andammo alla festa del Santo Patrono e Clelia, che allora aveva due anni ed era alta come un soldo di cacio, si mise a piangere perché voleva toccare la statua del Santo. Allora Pedro se la mise sulle spalle e cominciò a correre, su e giù per le strette viuzze addobbate con un tripudio di fiori colorati, finché non riuscì a raggiungere i portatori e li convinse, sotto gli occhi inorriditi del parroco, a fermarsi un istante per permettere a Clelia di dare un bacio al simulacro dalle vesti dorate.

E pensare che Pedro, in quasi vent’anni di matrimonio, non ha mai ceduto ad alcun mio desiderio, bollando come futile e frivolo tutto ciò che non avesse a che fare con il bene dei figli, o la gestione della casa. Che dire, non mi ha mai fatto mancare il necessario, ma non mi ha mai regalato neppure dei semplici fiori di campo, per il solo piacere di farmi sorridere. A vederlo così remissivo con Clelia, lo ammetto, ho spesso provato un po’ di invidia e di amarezza per quella che considero la più crudele, eppure naturale ingiustizia del cuore.

          «Forza Pedro! Non fare lo scansafatiche! Clelia ti sta chiamando non farla aspettare, o scoppierà a piangere e poi dovrai sudare sette camicie per calmarla» Gli dico gustandomi sorniona la scena. 

Un grugnito mi risponde da sotto l’ampia tesa del copricapo, è il suo modo di dirmi so cosa fare non ti preoccupare. Col suo passo dinoccolato, che sembra assecondare il rollio delle onde, scende dalla veranda e si avvicina all’altalena. Solleva appena la mano e Carlos si blocca, scendendo con la testa bassa, sconfitto. Pedro gli arruffa la zazzera nera, mentre gli passa accanto senza dire una parola. Clelia al settimo cielo si accomoda sul seggiolino, si dà una spinta con le gambe e sorride complice al padre.

«Ci sono i biscotti alle mandorle appena sfornati in cucina» Dico a Carlos, sfiorandogli quasi inavvertitamente la mano, quando mi raggiunge in veranda. Ha solo sette anni, ma le ferite che ci vengono inferte da bambini non guariscono mai, e non oso guardarlo negli occhi. 

Mi appoggio a uno dei pilastri di legno e mi accendo una sigaretta, lo faccio sempre quando qualcosa sfugge al mio controllo. Sì, quella di voler controllare ogni cosa, emozioni e situazioni è, a detta di Pedro, una mia pessima abitudine. E li osservo. Questa volta sono io a sentirmi sconfitta e, irrimediabilmente, incapace di perdonare.

«Papà, mi fai andare più in alto? Voglio arrivare a toccare il cielo! Mi piacerebbe saper volare come gli uccelli, che non stanno mai fermi in un posto e vedono tante cose dall’alto!» Dice Clelia ridendo felice.

«Se vuoi volare figlia mia, non c’è bisogno che io ti spinga. Devi farlo da sola e vedrai che presto imparerai a volare»

«Ma papà, io non posso volare! Altrimenti avrei le ali! Dai, spingimi forte che non ho paura!»

«E fai bene a non averne! Ricordatelo quando un giorno vorrai volare via, e ti sentirai come un pulcino appena nato davanti all’immensità del cielo. Non aver paura di cadere Clelia, se vorrai realizzare il tuo sogno!»

«Sì, papà, volare è il mio sogno, la cosa più bella che riesco a immaginare. Sai la notte, quando mi accorgo che il respiro di Carlos si è fatto pesante e non si sentono altri rumori nella casa, chiudo forte gli occhi e penso a un cielo azzurro pieno di nuvole bianche e soffici come lana di agnello. E allora mi sento leggera, leggera come una piuma portata dal vento, e mi sembra di riuscire a toccare le nubi e sentirne il profumo. Perché le nuvole profumano, lo sapevi papà? Sanno di zucchero filato! È per questo che mi piace tanto, e che l’anno scorso ne ho mangiati tre bastoncini alla festa del paese»

«E come ti senti quando tocchi le nuvole?»

«Sono felice papà e non vorrei più tornare! Però quando mi sveglio, e mi accorgo che è stato solo un sogno, divento triste. Quando l’ho raccontato a Carlos, lui ha detto che sono strana e che la mamma non mi avrebbe più fatto mangiare lo zucchero filato. Ma tu mi credi, vero papà?»

«Ascoltami Clelia, anche se adesso non capirai tutto quello che sto per dirti, un giorno penserai al tuo papà con le mani grandi e callose e te ne ricorderai. Chi sogna non ha bisogno delle favole. Quelle sono per chi vuole illudersi che le cose cambino senza fare nulla. Un sogno è una conquista, una strada in salita, una parete ripida da scalare, un mare in tempesta che ti toglie il respiro e il sonno. Chi sogna sa che avrà sempre delle battaglie da combattere e non potrà avere pace finché non ce la farà. E tu ce la farai solo se crederai nei tuoi sogni e nella tua forza»

«Se lo dici tu papà, allora io ci credo! Però lo zucchero filato posso mangiarlo lo stesso, vero? Ma non lo diciamo alla mamma, sennò si preoccupa e mi fa bere l’olio di ricino per non farmi venire il mal di pancia!»

«Sarà il nostro segreto, bambina mia, ma adesso rientriamo in casa che la mamma e Carlos ci stanno aspettando per la cena. Forza dai, facciamo a gara: chi arriva ultimo sparecchia la tavola!»

Carlos è seduto a tavola con i biscotti ancora intatti davanti a sé. Ne ha sgranocchiati un paio, giusto per non disobbedirmi, ma poi li ha lasciati lì senza più alcun interesse. È tipico di Carlos perdere subito interesse per le cose. Non mi ricordo ci sia mai stato niente che sia riuscito ad attirare la sua attenzione a lungo. Né il cavallino di legno che gli avevamo regalato a Natale quando aveva quattro anni; aveva addirittura voluto mangiare in sella al suo destriero, ed ero riuscita a farlo scendere solo quando era crollato dal sonno la sera, ma poi a Capodanno se ne era già dimenticato e non lo aveva più toccato. Né il cucciolo di Border Collie che Pedro aveva comprato da un amico perché facesse compagnia ai bambini. Per i primi mesi Carlos non aveva permesso a nessuno di noi di prendersi cura della bestiola; lo nutriva, lo portava fuori a correre nei prati e se lo portava persino a letto la notte, nonostante glielo avessi proibito. Poi un giorno ci disse che Potty, così lo aveva chiamato, era stato cattivo e gli aveva ringhiato, e da allora non lo aveva più degnato nemmeno di uno sguardo. Neanche quando il povero cucciolo, ignaro della sua colpa, uggiolava disperato grattando con la zampa sulla porta chiusa della sua camera da letto. Alla fine Pedro aveva dovuto lasciare Potty da un cugino che abitava in campagna e aveva una decina di pecore che, ben presto, si abituarono alla sua presenza, più di quanto Carlos non fosse riuscito a fare in quei pochi mesi.

Carlos mi osserva, mentre sto controllando la cottura dell’arrosto che rosola sfrigolando in padella con le patate novelle. Posso sentire i suoi occhi che seguono i miei movimenti anche se sono girata di spalle.

«Carlos, mi dai una mano ad apparecchiare? Su da bravo, prendi la tovaglia e i tovaglioli puliti nel cassetto. Piatti, posate e bicchieri sono nella lavastoviglie. Fai attenzione, mi raccomando!»

È mio figlio, quel figlio maschio che ho voluto io più di Pedro che non aveva occhi che per Clelia, mentre io avevo bisogno di qualcuno che mi amasse, incondizionatamente, senza chiedersi se i miei pregi superavano i miei difetti e senza giudicare ogni mia azione. E il destino mi aveva dato Carlos.

E ora provo quasi compassione a vederlo girarmi intorno con quell’aria, svogliata e stanca, di chi ha già intuito che la vita che ci tocca tutto sarà tranne che giusta, e che l’amore e l’affetto sono solo per chi sa esigerli e prenderseli, senza rimorsi e sensi di colpa.

Lo osservo mentre toglie i piatti dalla lavastoviglie e li appoggia sul tavolo. Li impila uno alla volta, poi prende i bicchieri e li mette in fila accanto ai piatti. Vicini al bordo del tavolo. Troppo vicini. E l’ultimo gli scivola dalle mani e cade frantumandosi in mille pezzi. Proprio mentre stanno entrando Pedro e Clelia.

«Possibile che tu non riesca mai a fare niente senza combinare guai?» Dice Pedro. Non lo sta sgridando, la sua è solo una constatazione, nuda e cruda. E forse per questo fa ancora più male.

«Voglio che tu vada via! Tu sei cattivo con me come Potty!» urla d’un tratto Carlos e la sua voce mi trafigge dritto al cuore come una scheggia di vetro. Niente potrà più essere come prima.


Una notte Pedro mi svegliò alle quattro.
«So quello che devo fare. Non ti preoccupare» Disse mentre si infilava gli stivali da pesca, prima il sinistro e poi il destro come al solito per scaramanzia. Mi diede un bacio sulla fronte e uscì chiudendo piano la porta. Non l’aveva mai fatto e avvertii che stava per succedere qualcosa.

La pesca delle sardine non ci avrebbe mai permesso di avere una grande casa in collina e di vivere più che discretamente. Avevo intuito che Pedro aveva trovato un modo per arrotondare le entrate, anche se lui non mi diceva nulla. Mi era bastato però vederlo un paio di volte appartarsi in paese con uno degli uomini di Don Michele, il boss del contrabbando di sigarette, per capire.   

La sua barca a motore fu trovata, miracolosamente intatta, al largo di Capo Orso, dopo una furiosa tempesta che aveva disperso altri due pescherecci. Di Pedro nessuna traccia:  i sommozzatori dovettero ben presto interrompere le ricerche a causa delle condizioni avverse del mare. Solo tre giorni dopo il suo corpo, trascinato dalle correnti, fu ritrovato nei pressi del promontorio del Castelluccio, sfigurato dalle rocce taglienti della scogliera a picco sul mare.

Non ebbi neppure il tempo di smettere il lutto, che arrivò una raccomandata da una grande compagnia di assicurazioni. Ero l’unica beneficiaria della polizza sulla vita che mio marito aveva stipulato e, dal momento che le autorità avevano chiuso il caso come uno sfortunato incidente, nulla e nessuno mi impediva di incassare il premio finale.

«Papà vorrebbe vedervi volare» Dissi a Clelia e Carlos una sera, mentre cenavamo in silenzio in cucina. Li guardai ancora una volta con gli occhi del cuore, cercando di fissare per sempre nella mente l’immagine dei miei bambini, anche se adesso avevo di fronte due giovani adulti. Così rimasi seduta in veranda a guardarli, quando, uno dopo l’altro, partirono per inseguire i loro sogni, senza più voltarsi indietro.

Il mare è la loro vita, come lo era stato per Pedro.
Quel mare che ci ha dato tanto e ci ha tolto tutto, che ha cambiato le nostre vite e segnato i nostri destini. Quel mare che Clelia studia come biologa marina, e Carlos naviga come sottufficiale della Marina Mercantile.

Mi alzo e raccolgo le forze per uscire un’ultima volta sulla veranda. L’aria rovente mi toglie il respiro, mentre a fatica scendo gli scalini che portano in giardino. L’altalena dondola ancora nel caldo infuocato del pomeriggio.

Mi sta aspettando, e io non voglio più rimandare. Adesso è arrivato il mio tempo di volare. Il tempo di vivere il mio ultimo sogno.