martedì 18 settembre 2018

Dani #20: Una rosa bianca



Sabato, 15 settembre 2018: il mio racconto Una rosa bianca riceve il premio per il secondo posto nella sezione narrativa alla V Edizione del Concorso Letterario Albiatum.

Ora con immenso piacere lo pubblico sul mio blog e spero possa regalarvi grandi emozioni come quelle che ha fatto vivere a me.

Buona lettura!

Una rosa bianca

Le tue mani sistemano i CD sulla libreria – non sono mai in ordine come vuoi tu! -, piegano i miei pantajazz e gli scaldamuscoli fucsia che avevo comprato da H&M, sperando, un giorno, di essere chiamata a fare un provino per Flash Dance. Le tue mani. Non avrei mai immaginato che l’eternità avrebbe avuto la forma e il calore delle tue mani. Ma anche il suono di quelle voci che non mi abbandonano mai. E io vorrei tanto chiudere gli occhi e addormentarmi. Per sempre.

Ehi, hai visto quella nuova in Seconda C? La tipa con i denti da coniglio e i capelli color topo, una cozza da paura! Sì, quella del primo banco… nessuno ha voluto sedersi vicino a lei, è così brutta che di sicuro mena anche sfiga! 

Non è facile avere quindici anni e sentirsi diversa. Diversa da quelli che dovrebbero essere come me perché hanno la mia età, vivono i miei problemi e sognano le cose che desidero anch’io. Non è facile; ci vuole forza e tanto coraggio per resistere alla tentazione di lasciarsi andare.

Sfigata è diventato il mio soprannome. Nessuno mi chiama più con il mio vero nome, ma tanto a nessuno importa quale sia. Mi sveglio alla mattina e corro in bagno a vomitare: le budella si contorcono fino allo spasmo, è l’unico modo che hanno per dirmi che, anche loro, non ce la fanno più. Cerco di pensare che devo resistere, che si tratta solo di poche ore e poi tornerò a casa. Ma a chi voglio raccontarla? Mi sento in trappola, non ci sono vie d’uscita, non ho scampo. E così, un giorno dopo l’altro, nascondo con il fondotinta, che prendo di nascosto dal beauty di mia madre, le occhiaie di notti passate a fissare il soffitto, a piangere e a supplicare Dio di mettere fine a questo tormento.

Guarda come si è combinata oggi la Sfigata! Ma dove l’avrà trovata quella maglietta? Io non la metterei neanche al mio cane per uscire quando piove! Ma questa puzza anche peggio... Al posto suo mi chiuderei nel cesso e non uscirei più!

Mi tremano le gambe e la nausea sale, quando devo attraversare il corridoio che porta alla mia classe. Loro se ne stanno appoggiati alle pareti a fissarmi, a ridere di me. Le ragazze sono le peggiori; qualcuna si è finta mia amica e mi ha dato consigli su come truccarmi, su cosa indossare per essere come loro: ammirate, fighe, popolari. Era tutto un piano studiato solo per rendermi ancora più ridicola, patetica.

Sfigata, ma dove hai preso quel catorcio? Dai, forza scendi che ci facciamo noi un giro. E smettila di  frignare e di fissarci con quegli occhi da pesce lesso… Se la pianti subito,  magari te la riportiamo tutta intera!

 Vorrei scappare, ma mi hanno circondata e mi costringono ad arretrare contro il muro. Poi partono i calci; la bicicletta è a terra, distrutta. È quella del nonno, con la canna orizzontale da passeggio. L’avevo trovata impolverata nella rimessa, ma con un paio di mani di vernice azzurra e un bel cestino di paglia era tornata come nuova. La uso per andare a studiare in biblioteca e per gironzolare lungo l’argine del fiume, quando il sole fa schiudere i germogli sui rami e le uova di libellula tra i fili d’erba.

Scommettiamo che la Sfigata non è mai andata in discoteca? E oggi si è pure messa in tiro… quasi quasi fa concorrenza alla Mariangela Fantozzi! Ehi, fa’ un po’ vedere cos’hai lì sotto? Però, ha un bel paio di tette la Sfigata… mi sa che oggi qualcosa le tocca…

 Ridono, mentre si passano una canna. Salgono in auto; si sentono grandi, onnipotenti. Qualcuno mi spinge: dai, vieni anche tu che ti facciamo divertire. Vorrei gridare di no, ma dentro non trovo più la forza. Voglio essere come loro, una di loro, basta che tutto finisca in fretta. Poi le luci che feriscono gli occhi, la musica che stordisce. E quel bicchiere che tengo tra le mani e che si riempie una, due, tre volte. Qualcuno mi butta su un divanetto; sono ubriaca, non riesco nemmeno a parlare, a muovere un dito. Non sento più niente. Adesso sono come loro.

Sei sicura di star bene? Hai un colore che non mi piace… vieni qui che ti provo la febbre. Ma si può sapere cosa hai combinato ieri sera? Ti ho sentita tornare che erano le tre passate… Meno male che tuo padre non era sveglio, sennò due scappellotti non te li toglieva nessuno!

Non è facile avere quindici anni e non riuscire a parlare con la propria madre. Io non ci ho nemmeno provato; pensavo che i miei occhi rossi, i silenzi a occhi bassi, la musica spenta nella mia stanza, gli scaldamuscoli dimenticati sul pavimento, e il cibo rifiutato con qualche scusa avrebbero parlato per me. Non è facile dire certe cose quando ti accorgi che l’unico desiderio di tua madre è sapere di aver messo al mondo la figlia perfetta, mentre quello di tuo padre è ottenere una promozione in ufficio. Non è facile quando sei sola, quando non hai amiche di cui fidarti e tutti ti chiamano Sfigata.

È molto più facile chiudersi a chiave in camera e passare ore davanti al pc,  dove nessuno sa chi c’è dall’altra parte, e dove ho finito per credere di essere anch’io come tutti gli altri. Lì puoi fingerti più grande di quella che sei, disinibita e provocante. Puoi provare ad essere donna con l’animo di una bambina. Puoi giocare a mostrarti quella che gli altri ti hanno costretta ad essere, distruggendoti col disprezzo, il ridicolo, l’umiliazione.

Puttana. Sei solo una puttana.

Così c’era scritto con la vernice rossa sulla porta del garage. Perché loro non mi hanno mollato; adesso che credevo di avercela fatta a essere come loro, mi hanno respinta, ancora una volta. Non ero solare, moderna, disincantata, ero solo una puttana. Ma è difficile essere una puttana quando hai quindici anni e la vita non ti ha ancora insegnato come si incassano i colpi bassi.

Ammazzati e facci felici.

Hanno aggiunto sotto e io li sento ancora sghignazzare, mentre uno dopo l’altro mi si buttano addosso su quel divanetto che puzzava di alcol e della mia paura. A loro basta poco per essere felici; gli basta sapere che sparirò dalla faccia della terra, che non vedranno più i miei denti da coniglio e i capelli color topo. Io che felice non sono mai stata: non come gli altri volevano che io fossi, non come sognavo, quando mi addormentavo sfinita sul cuscino bagnato, pregando di non svegliarmi più.

Così è stato facile uscire sul balcone, chiudere gli occhi e lanciarmi nel vuoto. Volare, sapendo che tutto sarebbe finalmente finito. Sapendo che avrebbero dovuto cercarsi un’altra sfigata: io adesso ero libera.

Ti osservo, mentre ti chini a mettere una rosa bianca tra i fiori di campo che mi porti ogni giorno sempre alla stessa ora; quella in cui c’è meno gente e puoi fermarti a parlare con me più a lungo, senza che nessuno ci disturbi. Ma oggi c’è qualcosa di diverso: forse è solo una sensazione, ma il sole è un po’ più caldo, l’azzurro del cielo un po’ più intenso, e le tue lacrime meno tristi.

Lara, era una ragazza come voi. Lara amava, anzi no!, lei ama la musica e la danza come molti di voi… Lara aveva tutta la vita davanti e il diritto di viverla a modo suo. Nessuno potrà mai togliervi questo diritto, perché voi tutti siete Lara!


Oggi hai parlato di me, lo hai fatto davanti a ragazzi della mia età e alla fine, quando ti hanno applaudita hai sorriso; era da tanto, troppo tempo che non lo facevi più. Adesso anche tu sai che questo dolore non è stato vano, e io non sento più le loro voci. Ora posso addormentarmi in pace, mamma.



mercoledì 5 settembre 2018

Recensioni & Co #25: Infondate ragioni per credere all'amore




L'amore? Non so. Se include tutto, anche le contraddizioni
e i superamenti di se stessi, le aberrazioni e l'indicibile, 
allora sì, vada per l'amore.
Altrimenti, no.
(Frida Khalo)

Perché ho scelto questo pensiero di Frida Khalo sull'amore? Perché, secondo me, stigmatizza la storia che Pina Bertoli narra in Infondate ragioni per credere all'amore, vincitore del concorso IoScrittore del Gruppo editoriale Mauri Spagnol.

Non ci sono certezze in amore, non c'è mai nulla di scontato, al contrario l'amore vive di ostacoli, impedimenti, rinunce, sacrifici: fuori e dentro noi stessi. E la vita di Francesco, in una narrazione fluida che partendo dall'estate del 1955 ci accompagna fin quasi ai nostri giorni, è davvero un percorso accidentato, fatto di prove non superate, rapporti famigliari congelati nell'odio e nell'indifferenza, di amori giusti o sbagliati, ma sempre lasciati e ritrovati nel momento meno opportuno.

Francesco è quello che in letteratura viene definito un antieroe; è, sì, il protagonista del romanzo ma ha tutte le caratteristiche del perdente, del fallito: non ha fiducia in se stesso, non è portato per gli studi ma neanche per il lavoro. Non sa cosa farà da grande, semplicemente perché non si conosce, non sa nemmeno lui chi è e cosa vuole dalla vita.

Si lascia trasportare dagli eventi, quasi li subisce, incapace com'è di prendere decisioni importanti, di dare una svolta a quel suo non essere: il figlio di cui essere orgogliosi che il padre, avvocato integerrimo fino alla durezza d'animo, bolla fin dall'adolescenza come imbecille, il fratello che dà lustro alla famiglia e sul quale si può fare affidamento, il marito presente e fedele, l'amante con cui ritrovare la gioia di vivere.

Perché Francesco non è e non sarà mai nulla di ciò, e lui stesso se ne rende conto dopo quella tragedia della strada che lo vede coinvolto con l'amico Oreste: una notte di un'estate che non scorderà più. Si sforzerà di continuare a vivere, rifugiandosi nell'amore di Maria, la bella operaia che riesce ad abbattere quel muro di apatia e rinuncia che Francesco ha costruito a sua difesa, ma neanche questo e la nascita della piccola Diletta sembrano bastare.

Quella che può sembrare una parvenza di vita normale, in realtà, si rivela una finzione o come Maria, l'altra voce narrante del romanzo, avrà modo di dire, una sorta di anestetico con il quale Francesco ha cercato, inutilmente, di dimenticare la perdita del vero e grande amore della sua vita: Simonetta, la ragazza delle estati di Viareggio.

E quando la vita li farà incontrare di nuovo, Francesco non rinuncerà a Simonetta, in quella che forse è la sua unica presa di coscienza e affermazione di volontà. Sarà un amore clandestino, perché entrambi sono sposati, che durerà quattro anni e che si concluderà con un'altra tragedia, anch'essa della strada come nel caso di Oreste, in un deja vu che chiude, in un cerchio di dolore e sofferenza, la breve parentesi di felicità nella vita di Francesco.

Perché neppure il ritorno di Maria, che dopo la scoperta del tradimento lo abbandona, e la ritrovata vita coniugale che gli regala ancora qualche momento di sollievo dal risentimento che Francesco prova per se stesso e per tutto ciò che non è riuscito ad essere, lo salva dal dubbio e dal tormento che la decisione di Maria, ormai morta, di tornare con lui, fosse in realtà una forma di compassione e non di amore.

Francesco, un antieroe che non si può fare a meno di  compatire, non tanto nel senso di provare compassione, quanto, nell'etimo più profondo, del condividere i dolori, del patire insieme. Perché, se non lo si fosse ancora capito, a me Francesco piace e molto, per lui provo tenerezza e simpatia, per quei suoi difetti e mancanze così umane, così anche mie.

E in questa sua vita sfortunata da antieroe vedo il riflesso di un altro grande antieroe che amo, quell'Arturo Bandini che John Fante ha reso immortale in Chiedi alla polvere, e che in molti aspetti mi ha ricordato.

Al termine di questi miei pensieri sparsi, mi sento, con fondate ragioni, di consigliarvi la lettura di questo splendido romanzo e di fare, ancora una volta, i miei complimenti alla magica penna di Pina Bertoli.

Buona lettura!


martedì 29 maggio 2018

Recensioni & Co #24: Salvare le ossa

Salvare le ossa
Jesmyn Ward 

Un libro deve essere un'ascia per rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi. (F. Kafka)

Non a caso mi è venuta in mente questa frase, tratta da una lettera di Kafka, per introdurre i miei pensieri sparsi sul romanzo di Jesmyn Ward, Salvare le ossa (NN Editore).
Non a caso, perché fortissimo è stato l'impatto emotivo che ho provato insieme al senso di ineluttabilità della vita che mi ha lasciato.
Ineluttabile come le storie e gli archetipi narrati nei miti o nelle fiabe che, a mio parere, ne sono la versione rivisitata dei tempi moderni.

E la cosa che maggiormente mi ha stupita è stata la materia con la quale la Ward è riuscita a creare questa atmosfera "fuori dal tempo e dal luogo", questo incalzare di eventi possenti, che non lasciano scampo sullo sfondo di una natura selvaggia come quella della Fossa: un lembo di terra coperto di boschi e pozze di acqua fangosa nel Mississipi, a poca distanza dal golfo del Messico.
Bois Sauvage è il paese dove si muovono i personaggi della Ward, un  villaggio minuscolo che però ha in sé tutta la potenza deflagrante dei conflitti primigeni.
Una madre che muore nel dare alla luce il suo ultimo figlio, un'adolescente che scopre di essere incinta, una pitbull che ha appena partorito la sua prima cucciolata e un uragano, Katrina, che incombe con la sua forza distruttiva.

Esch, unica donna della famiglia Batiste che vive in una casa-baracca nel bayou, è l'io narrante della storia e, attraverso i suoi occhi e la sua pancia che cresce e si solleva da sotto le magliette come se già vivesse di vita propria, ci viene permesso di entrare in questo mondo "ai limiti".

Ai limiti dell'indigenza in cui vivono i quattro fratelli, Randall, Skeetah, Junior ed Esch, del dolore spento nell'alcolismo del padre Claude, del sesso consumato troppo in fretta che si confonde con il primo amore, e del bisogno di appartenere a qualcuno che diventa quasi ossessione.

Il sesso è quello che Manny, uno degli amici dei fratelli Batiste, si prende da Esch senza guardarla negli occhi, fino al giorno in cui lo farà e la allontanerà spaventato dal segreto che intuisce dentro il suo corpo.
L'affetto, silenzioso ma sempre presente e che un giorno potrebbe diventare qualcosa di più, è quello di Big Henry, un altro amico dei fratelli Batiste, per Esch.
L'amore incondizionato è quello che Skeetah prova per China, la sua pitbull bianca; femmina che distrugge e divora i maschi nei combattimenti tra cani organizzati in una radura della Fossa. Per lei Skeetah sarebbe pronto a dare la vita, ma a lei dovrà e saprà rinunciare quando Katrina, uragano femmina e per questo più distruttivo dei suoi predecessori, gli imporrà la scelta più dolorosa: o China o la sua famiglia.

Se l'incombere dell'uragano è il file rouge di una narrazione altrettanto potente nelle sue metafore, a volte dolcissime e altre crudeli, e la sua attesa è essa stessa parte viva di una storia che rimanda e riecheggia la tragedia classica, è il suo arrivo e il suo dirompere incontenibile il climax del romanzo.

Katrina, con la sua forza spietata, la sua violenza mai vista, compie cose eccezionali; non solo negative. Katrina è la voce e l'abbraccio della mamma che teneva i suoi ragazzi stretti a sé perché non sentissero l'urlo lacerante del vento, è il grido di Skeetah al padre che scopre che Esch è incinta, mentre si lanciano da un ramo all'altro di una quercia per salvarsi la vita, è il guaito sempre più flebile di China risucchiata dalla forza dell'acqua, ed è l'attesa caparbia di Skeetah che bivacca, accanto a quella casa che ora non c'è più, aspettando di vederla tornare da lui.

Un romanzo che mi ha profondamente emozionata, mi ha fatto riflettere, mi ha ricordato che esistono vite, paradossalmente lontane anni luce dal nostro quotidiano, che combattono le nostre stesse battaglie.

Un romanzo che, grazie alla splendida traduzione di Monica Pareschi che è riuscita perfettamente a mantenere intatto lo spirito dell'originale in una diversa forma linguistica, ho apprezzato anche per l'ampio spazio narrativo dato al mondo femminile, in tutti i suoi aspetti.

China. Lei tornerà, e si ergerà, dritta e maestosa, senza più una goccia di latte. Abbasserà lo sguardo sul cerchio di luce che abbiamo acceso dentro la Fossa, e allora saprà che sono stata attenta, che ho lottato. China abbaierà e mi chiamerà sorella. Nel cielo soffocato di stelle, c'è un grande silenzio di attesa.
Lei lo saprà che sono madre.

E, nell'attesa dei prossimi capitoli di questa Trilogia di Bois Sauvage, vi consiglio vivamente questo primo capitolo.

Buona lettura!

domenica 8 aprile 2018

Recensioni & Co #23: Stoner

Stoner
di John Williams 

Se volessi per praticità condensare la trama di questo romano in una frase potrei azzardarne un paio: storia di un fallimento o la vita di un fallito.

La vita è quella di William Stoner, ragazzo di campagna nato a Booneville che diventa studente, prima di agraria e poi di letteratura inglese, all'università di Columbia, dove trascorrerà tutta la vita come docente fino alla pensione.

Sullo sfondo il fragore delle due guerre mondiali che arrivano a turbare il silenzioso e sempre uguale scorrere dei giorni dentro le mura secolari della Jesse Hall, lasciando una scia di morte e dolore.

Ma Stoner è molto di più.

E' la scoperta, sconvolgente nella sua semplicità, che la vita, quella di ognuno di noi, nasconde molto di più di quello che noi stessi riusciamo a vedere, capire e confessare.

Non sono la mediocrità, l'apparente apatia, la totale remissività e sottomissione di Stoner, sia nella vita privata che in quella professionale, a fare di lui un personaggio straordinario. No, la sua grandezza è proprio là, dove noi lettori cogliamo invece la sua profonda inadeguatezza e la sua desolante infelicità come insegnante, marito, e padre. 

E' la grandezza dei perdenti agli occhi del mondo, di coloro che non saranno ricordati per aver compiuto gesta strabilianti, di tutti quelli che non trovano conforto né pace nemmeno tra le mura domestiche.

Stoner è un uomo "contratto", chiuso in se stesso, incapace di trasmettere la sua passione per la letteratura medievale inglese ai suoi studenti, così come di scegliersi e gestire una moglie sessualmente e psicologicamente problematica, e di farsi amare dalla figlia, l'unica che, per un certo periodo, gli esprime empatia, standogli accanto nello studio dove lavora.

Una vita segnata dalle rinunce, anche di quel fragile amore clandestino che Stoner incontra per la prima volta a quarant'anni con una sua allieva: passione carnale ed intellettuale alla quale finirà per rinunciare sotto la pressione dei vecchi rancori di un collega cattedratico, e della necessità di salvare le apparenze di un matrimonio fatto di indifferenza e sopportazione.

Perché allora si arriva al termine di questo romanzo con la sensazione di aver scoperto qualcosa della nostra vita?

Perché il modo in cui Stoner osserva, per gran parte della vita, la sua esistenza è lo stesso con cui noi guardiamo la nostra: dall'esterno, giudicandola con il metro del mondo.

E allora la domanda è una sola: cosa ti aspettavi?

Ma nel momento stesso in cui, con la sua prosa pacata, lenta ma inesorabile e folgorante come le verità più profonde e semplici, Williams dipinge - non saprei trovare un verbo più appropriato - la fine di Stoner, ecco, lì l'uomo-fallito si riscatta ed entra in contatto con la sua essenza, diventa cosciente del suo vero essere.

Non importa chi siamo stati e perché, importa solo ciò che abbiamo vissuto.

"Bill, se non avremo nient'altro, avremo avuto questa settimana. E' un pensiero molto infantile?"
"Non importa se è infantile o no", disse Stoner. Poi annuì: "E' vero".

 Una piccola parte di noi resterà, nonostante la vita: è questa la magia meravigliosa di un romanzo che non è solo un libro o la storia di un fallito.

E tuttavia sapeva che una piccola parte di lui, che non poteva ignorare, era lì, e vi sarebbe rimasta.

Un romanzo imperdibile.

mercoledì 21 marzo 2018

Dani #19: Pensieri e parole 3

Pensieri e parole... di Primavera!

E' da un po' di tempo che mancavo al mio appuntamento 
con le parole in poesia; un appuntamento che oggi, primo giorno 
di Primavera (almeno da calendario) voglio rinnovare.

Un inizio va sempre celebrato, per tutto quello che porterà con sé, 
per i sogni e le speranze che ci promette, e allora io lo faccio a modo mio, 
con queste mie riflessioni lente ai bordi dei ricordi
che mi azzardo a chiamare poesie.

Buon inizio a tutti voi!


In volo

Chiudo gli occhi
e lascio che il silenzio
inghiotta
anche l’ultima paura.

Sei volato lontano,
da questa terra che non ti appartiene,
da questa mano che non ti ha legato.

Gonfia il vento
le tue ali perfette,
mentre danzi nell’azzurro infinito,
e il sole s’inchina
ai tuoi sogni possenti

-    sali più in alto!    -

Ammutoliscono le voci
che ti acclamavano;
torre di sabbia sulla scacchiera
delle umane vanità
ora non sei più.

Il tuo battito libero
incanta le vette
che, di pura bellezza,
sfidano il respiro di Dio

 -lassù -

hai posto il tuo nido,
dove la grandezza degli uomini
è solo un’ombra lontana.

Chiudo gli occhi
e lascio che il silenzio
inghiotta anche l’ultima paura,
mentre volo
accanto a te.

Apri il cuore
e distendi le ali;
quando anche chi ti ama
dimentica il tuo nome,
tu puoi volare.

E ogni luogo dentro di te
sarà la casa 
a cui appartieni.

E ogni battito d’ali
sarà il luogo
a cui apparterrai.



La Musa


Parole scelte con cura,
sonagli incantati
s’affacciano al mondo
tintinnando

˗ altrimenti ˗
  
aggrappate l’une alle altre
in un’impossibile
architettura verticale
che non conosce equilibri.

A costruire mosaici
di suoni che puntano al cielo;
miraggi di sogni spezzati
all’alba di giorni senza luce

-   eppure  -

è un battito d’ali
che l’anima nuda dispiega tremante;
farfalle intinte
nel nero inchiostro

sul mare frusciante
d’una pagina bianca
che ammalia ricordi
celati nella sabbia del tempo.
  
Parole scelte con cura;
mi perdo dentro trame
incerte di veli opachi

- cos’è sogno ? -
- cos’è realtà? -

A tessere ricami inconsistenti
 così mi lasciano intendere,
ma è solo un inganno;
ed io sono il loro strumento.



Qualcosa di te

Ricordami i tuoi colori
quando mi insegnavi a leggere
l’arcobaleno.

Le  risate
quando con gli occhi chiusi
mi nascondevo al mondo.

Il sorriso
quando una lucertola sul muricciolo assolato
era un dono per te.

Le carezze
quando tornavo piangendo
a farmi ricucire
le ferite del cuore.

 I tuoi baci
rari e preziosi,
e  le  preghiere
con cui mi affidavi a quell’angelo
che ora è accanto a te.

Ricordamelo;
ogni volta che non riesco a trovarti
dentro di me.





Un giorno come tanti


Oggi, un giorno come tanti.
Eppure speciale di cose belle e normali: 
alzarmi e baciarti,
guardare la luce che ancora non si ritrae
e giocare con i pensieri;
magari poi cambiamo le lenzuola,
dentro questo letto disfatto
mi piace starmene a bere
il tuo tè affumicato
di spiagge lontane
e vasi di terracotta.

Fiori bianchi
dal profumo d'inverno;
lascia stare, lo facciamo domani,
io vorrei ancora un po’ di tè.

Steli lunghi
e colli d'aironi,
un velo di luce
sui tuoi occhi addormentati;
cose belle e normali,
averti accanto a me.

Un pezzo di pizza,
una fetta di torta e uno spicchio di notte
nella luce calda dell'abat-jour;
giura che niente sarà più come adesso
se non potrò saziarmi di te.

Oggi, un giorno come tanti.
Eppure speciale di cose belle e normali:
ascoltare la pioggia
che canta sui vetri,
scorgere un grazie
sulle tue labbra bagnate
e tenerti per mano;
c'è ancora tempo
per un altro ti amo.




La bambola rotta

Se le lacrime
fossero fiori,
i tuoi occhi
sarebbero un grande giardino.

Tu, bambola rotta,
tra le mute pareti
di un orrore
consumato in silenzio

-          chi ha lacerato il tuo abito bianco?   -

Tu, farfalla dalle ali color paradiso,
inchiodata alla nuda terra;
a che è servito pregare
un dio sordo alle tue grida?

Se le lacrime
fossero fiori,
questa terra
sarebbe un immenso giardino;

ma non è più tempo di lacrime
e le rose sono appassite
tra le mani di chi
invoca il tuo nome.




domenica 11 marzo 2018

Recensioni & Co. #22: Mi chiamo Lucy Barton

Mi chiamo Lucy Barton
Elizabeth Strout

Desideravo da tempo leggere questa scrittrice e, anche se non è il suo primo e forse nemmeno miglior romanzo, ho scelto Mi chiamo Lucy Barton. La storia mi intrigava: Lucy Barton viene ricoverata in ospedale per un'innocua appendicite che, a causa di un batterio sconosciuto, si trasforma in una lunga malattia che la costringe a una degenza di parecchie settimane. Lucy si sente sola, abbandonata e soffre la mancanza delle figlie, che le vengono portate in visita da un'amica che di figli suoi non ne ha, e del marito impegnato con il lavoro.

Ma un giorno, ai piedi del suo letto d'ospedale, Lucy troverà sua madre, o forse sarebbe meglio dire ritroverà. Dopo anni di lontananza e per la prima volta in vita sua la donna si è allontanata da Amgash, minuscolo paese dell'Illinois, dove abbondano le case diroccate, i campi di granturco e soia, gli allevamenti di maiali come in quasi tutti i paesi del Midwest, ha preso un aereo e poi un taxi, cosa che la terrorizza parecchio, è si è presentata dalla figlia.

A tenerle compagnia potrebbe sembrare, ma in realtà, nelle mia lettura, ci è andata per ritrovare se stessa e il loro rapporto madre-figlia: un rapporto interrotto, quasi congelato da un passato di miseria estrema, di emarginazione e di inadeguatezza nei confronti degli altri e della vita.

E questo rapporto si ricostruisce, con grande fatica da entrambe le parti, attraverso il racconto di episodi del passato che coinvolgono vicini di casa, parenti e conoscenti come Kathie Nicely, zia foca, i cugini Abel e Dottie, Marilyn Qualcosa, Mississippi Mary.

La madre la chiama Bestiolina, un vezzeggiativo che non usava da tempo e che scioglie quel grumo di tensione che Lucy sente dentro, e parla con un tono che Lucy non ricordava, come se tutte quelle sensazioni e sentimenti che non aveva mai espresso, adesso le uscissero in un sussurro disinibito.

E mentre la madre racconta e le sta accanto, aspettandola, seduta al buio nella sala d'attesa, nel sotterraneo dell'ospedale con le spalle curve per la sfinimento, uscire dalla Tac, Lucy ricorda a sua volta.

Ricorda la vita di una famiglia che fa schifo, come dicevano i suoi compagni di scuola, una famiglia poverissima che fino ai suoi undici anni aveva vissuto in un garage: il padre che perdeva spesso il lavoro e non aveva mai superato il trauma della guerra, la madre che faceva lavori di sarta per mettere insieme il pranzo con la cena, la sorella e il fratello che, a modo loro, cercavano di sfuggire a quella vita da feccia umana e lei...

Lei, Lucy Barton, che da piccola veniva lasciata sola nel furgone del padre e che perciò odia i serpenti, lei che con il cugino andava a cercare da mangiare nei cassonetti. 

Lei, Lucy Barton, che diventata donna, moglie e madre, cercherà di dimenticare quella Cosa del suo passato di cui mai riuscirà a parlare con la madre, e che le terrà lontane a tal punto da non essere in grado di dirsi un semplice ti voglio bene.

Ci vorranno molti incontri nella vita di Lucy, quello con Jeremy, Molly, Sarah Payne, un divorzio e un nuovo marito, perché lei possa riconciliarsi con il passato, con se stessa e con quella vita che la lascia sempre senza fiato.

Una storia che poteva essere il ritratto di una famiglia diversa ma che, pagina dopo pagina, si è trasformata nel racconto di una storia d'amore: l'amore sofferto, duro, quasi impossibile tra una madre e sua figlia, e quello, altrettanto complicato e mai risolto, tra una donna e il suo passato.

Devo dire che la prosa di Elizabeth Strout mi ha affascinata e a volte destabilizzata, forse perché riesce a toccare corde profonde e a smuovere sensazioni, se non ricordi personali, in cui ci riconosciamo in quanto esseri umani.

E Lucy Barton... beh l'ho amata per quel suo essere fragile, indifesa, vittima predestinata all'apparenza ma, invece, forte e padrona del suo destino, nonostante tutto.

Un romanzo che consiglio, buona lettura!

domenica 4 marzo 2018

Recensioni & Co #21: Le nostre anime di notte


Le nostre anime di notte
Kent Haruf

                       Nella cittadina immaginaria di Holt, in Colorado, un giorno la vedova Addie Moore bussa alla porta del suo vicino Louis Waters, ex professore di letteratura anch'egli vedovo, e gli fa una proposta sorprendente e scandalosa: ti andrebbe qualche volta di venire a dormire da me?

                        Sorprendente perché i due, anche se vicini di casa da anni, si conoscono poco. Scandalosa perché i due hanno ormai passato la settantina.
                        
                        Così ha inizio una relazione che, dopo l'imbarazzo iniziale, continua e cresce con il ritmo lento della vita di provincia, in un lembo di terra disegnato da distese di stoppie a perdita d'occhio.
                        
                        Una relazione fatta di tenerezza, complicità, ricordi e racconti di esistenze sopravvissute a tradimenti, disgrazie e assenza di contatto e calore umano ma, al tempo stesso, forte e densa: di quella urgenza di vivere ogni istante, di esserci l'uno per l'altra che si fa ancora più pressante quanto più imminente è la fine che si avvicina.
                        
                       Eppure questa lenta inesorabilità, che in altre mani sarebbe stata dolorosa e senza speranza, nell'ultimo romanzo di Haruf diventa un inno, sommesso e delicato, all'amore che non conosce l'inverno degli anni, che risveglia passione e sesso, fregandosene degli acciacchi del corpo.
                        
                       Haruf racconta la poesia della quotidianità di vite normali; e allora sembra di essere lì con i suoi personaggi a mangiare un hamburger, vedere una partita di softball, assistere a una sfilata di auto, trattori e trebbiatrici, fare un picnic in riva al fiume, campeggiare guardando le stelle nel buio della notte, scegliere un cane, magari quello più timido con una zampetta acciaccata, perché possa giocare con il nipotino.
                       
                      Una relazione improbabile che supera le maldicenze dei perbenisti e l'invidia di chi vorrebbe poterne vivere una uguale, ma non lo fa per paura o ipocrisia condannandosi alla solitudine, e cede invece al ricatto morale più crudele, quello di un figlio.
                       
                      Addie e Louis, separati da un incidente all'anca di lei, dalla lontananza e dalla vita che non perdona l'età e i sentimenti, nemmeno quelli più veri e profondi, troveranno il mezzo per tenersi in contatto; perché il verbo esserci per un'altra persona può essere declinato in migliaia di modi e circostanze. 
                     
                     Un romanzo che amo e che consiglio caldamente, non solo per il talento di Haruf, ma anche per il messaggio, che impregna ogni singola pagina, dichiarato per bocca di un personaggio: mi fa pensare che anche per qualcun altro ci possa essere speranza.
                      
                      La speranza di amare ed essere amati, sempre.

domenica 4 febbraio 2018

Recensioni & Co #20: L'amante giapponese


Ci sono passioni che divampano come incendi fino a quando il destino non le soffoca con una zampata, ma anche in questi casi rimangono braci calde pronte ad ardere nuovamente non appena ritrovano l’ossigeno. 

E una passione così lega Alma Belasco e Ichimei Fukuda per e oltre la vita in un romanzo che ripercorre le loro esistenze e, insieme ad esse, anche quelle dell'Europa e dell'America dalla Secondo Guerra Mondiale ai, direi quasi, nostri giorni.

Alma è una ragazzina polacca che, per sfuggire allo sterminio nazista, viene imbarcata dai genitori e mandata con la governante a San Francisco dagli zii. Qui crescerà nel lusso di una villa da sogno, ma anche nella solitudine orrenda di una bambina che sa di essere rimasta sola al mondo e che, dopo aver pianto tutte le sue lacrime, si chiude in se stessa e al mondo per risparmiarsi altri dolori.

Questa sua sofferenza sarà alleviata dalla presenza di Ichimei, figlio del giardiniere della villa e del cugino Nathaniel, più grande di lei e altrettanto complesso nella sua fragilità e sensibilità.

La storia d un grande amore e di una passione ancora più forte che congiunge e, al tempo stesso, divide le loro esistenze, mentre sullo sfondo passano le immagini del Ghetto di Varsavia, dei campi di sterminio nazisti e di quelli di concentramento dove vennero reclusi i nippo-americani dopo i fatti di Pearl Harbour.

Una storia d'amore che affascina non solo per la sua resistenza ai colpi della vita, alla morale e agli ostacoli della società, ma soprattutto per la personalità dei protagonisti.

Alma, così altera e apparentemente sicura di sé, una donna in carriera che non sembra temere nulla, a parte il suo amore per Ichimei che la rende vulnerabile e la costringe a scegliere. Una scelta obbligata a quei tempi, una scelta che cambierà la sua vita, spingendola tra le braccia di Nathaniel.

Ichimei, l'amante giapponese, l'unico uomo che saprà amarla ad ogni incontro di quell'amore carnale e puro che li renderà schiavi e liberi di essere se stessi fino alla morte.

Ma definire L'amante giapponese la storia di un amore è perlomeno riduttivo. Raccontando dell'amore tra Alma e Ichimei, l'Allende ci parla della felicità umana e dei tentativi, a volte consapevoli altre meno, che ognuno di noi mette in atto per cercare di assicurarsene quel tanto che basta ad illuminare il nostro cammino. Ed è una felicità fuggevole, fatta di momenti, sensazioni, attese, unioni spesso solo sognate, desiderate.
Forse l'unica felicità destinata agli uomini.

La felicità non è esuberante né chiassosa, come il piacere o l’allegria. È silenziosa, tranquilla, dolce, è uno stato intimo di soddisfazione che inizia dal voler bene a se stessi. 

Non è l'amore che vince su tutto, perché nella realtà un amore così è davvero raro, quello descritto dall'Allende ma un amore tanto vero e umano da attraversare i decenni, fino a diventare ragione di vita o di morte nella vecchiaia. 

Ed è stato proprio questo aspetto dell'amore, l'età avanzata, ad avermi colpita. Quando a un certo punto della sua vita, Alma decide di ritirarsi in una casa per anziani, sceglie Lark House e, noi con lei, entriamo in un mondo parallelo che apre uno spiraglio su quella che un giorno potrebbe diventare anche la nostra esistenza. 

E' stato coinvolgente ma anche "sconvolgente" leggere del desiderio di amore fisico, di carezze e condivisione dello stesso letto tra gli anziani ospiti di Lark House, prima che per loro si spalanchino le porte del terzo livello, quello da cui non si fa più ritorno. Un ritratto realistico e a tratti umoristico di un gruppo di anziani rivoluzionari e figli dei fiori che manifestano ogni venerdì contro i mali del mondo, ballano a piedi nudi intorno agli alberi e fumano cannabis per dimenticare i dolori del corpo e dello spirito. 

Amore e morte, l'una non rinnega l'altro e insieme accompagnano ogni nostro giorno. 

Iniziamo a invecchiare nel momento in cui nasciamo, cambiamo giorno dopo giorno, la vita è un continuo fluire. Ci evolviamo. L’unica cosa diversa è che adesso siamo un po’ più vicini alla morte. E cosa c’è di male in questo? L’amore e l’amicizia non invecchiano. 

A Lark House Alma, nel suo progressivo scivolare verso la fine, incontra Irina, giovane donna di origini Moldave dal passato misterioso e terribile, che diventerà suo braccio destro, amica, confidente e, grazie a lei e al suo unico nipote Seth, Alma riuscirà a ricordare e a mettere ordine nella sua lunga e tortuosa esistenza. 

Riordinare album di fotografie, raccontare spezzoni di vita per permettere a Seth di scrivere un improbabile romanzo sulla famiglia Belasco, sono l'ultimo atto purificatorio e la finale presa di coscienza di Alma. La felicità l'attende altrove e Ichimei la sta già aspettando.

Tutti nasciamo felici. Lungo la strada la vita ci si sporca, ma possiamo pulirla.