martedì 18 settembre 2018

Dani #20: Una rosa bianca



Sabato, 15 settembre 2018: il mio racconto Una rosa bianca riceve il premio per il secondo posto nella sezione narrativa alla V Edizione del Concorso Letterario Albiatum.

Ora con immenso piacere lo pubblico sul mio blog e spero possa regalarvi grandi emozioni come quelle che ha fatto vivere a me.

Buona lettura!

Una rosa bianca

Le tue mani sistemano i CD sulla libreria – non sono mai in ordine come vuoi tu! -, piegano i miei pantajazz e gli scaldamuscoli fucsia che avevo comprato da H&M, sperando, un giorno, di essere chiamata a fare un provino per Flash Dance. Le tue mani. Non avrei mai immaginato che l’eternità avrebbe avuto la forma e il calore delle tue mani. Ma anche il suono di quelle voci che non mi abbandonano mai. E io vorrei tanto chiudere gli occhi e addormentarmi. Per sempre.

Ehi, hai visto quella nuova in Seconda C? La tipa con i denti da coniglio e i capelli color topo, una cozza da paura! Sì, quella del primo banco… nessuno ha voluto sedersi vicino a lei, è così brutta che di sicuro mena anche sfiga! 

Non è facile avere quindici anni e sentirsi diversa. Diversa da quelli che dovrebbero essere come me perché hanno la mia età, vivono i miei problemi e sognano le cose che desidero anch’io. Non è facile; ci vuole forza e tanto coraggio per resistere alla tentazione di lasciarsi andare.

Sfigata è diventato il mio soprannome. Nessuno mi chiama più con il mio vero nome, ma tanto a nessuno importa quale sia. Mi sveglio alla mattina e corro in bagno a vomitare: le budella si contorcono fino allo spasmo, è l’unico modo che hanno per dirmi che, anche loro, non ce la fanno più. Cerco di pensare che devo resistere, che si tratta solo di poche ore e poi tornerò a casa. Ma a chi voglio raccontarla? Mi sento in trappola, non ci sono vie d’uscita, non ho scampo. E così, un giorno dopo l’altro, nascondo con il fondotinta, che prendo di nascosto dal beauty di mia madre, le occhiaie di notti passate a fissare il soffitto, a piangere e a supplicare Dio di mettere fine a questo tormento.

Guarda come si è combinata oggi la Sfigata! Ma dove l’avrà trovata quella maglietta? Io non la metterei neanche al mio cane per uscire quando piove! Ma questa puzza anche peggio... Al posto suo mi chiuderei nel cesso e non uscirei più!

Mi tremano le gambe e la nausea sale, quando devo attraversare il corridoio che porta alla mia classe. Loro se ne stanno appoggiati alle pareti a fissarmi, a ridere di me. Le ragazze sono le peggiori; qualcuna si è finta mia amica e mi ha dato consigli su come truccarmi, su cosa indossare per essere come loro: ammirate, fighe, popolari. Era tutto un piano studiato solo per rendermi ancora più ridicola, patetica.

Sfigata, ma dove hai preso quel catorcio? Dai, forza scendi che ci facciamo noi un giro. E smettila di  frignare e di fissarci con quegli occhi da pesce lesso… Se la pianti subito,  magari te la riportiamo tutta intera!

 Vorrei scappare, ma mi hanno circondata e mi costringono ad arretrare contro il muro. Poi partono i calci; la bicicletta è a terra, distrutta. È quella del nonno, con la canna orizzontale da passeggio. L’avevo trovata impolverata nella rimessa, ma con un paio di mani di vernice azzurra e un bel cestino di paglia era tornata come nuova. La uso per andare a studiare in biblioteca e per gironzolare lungo l’argine del fiume, quando il sole fa schiudere i germogli sui rami e le uova di libellula tra i fili d’erba.

Scommettiamo che la Sfigata non è mai andata in discoteca? E oggi si è pure messa in tiro… quasi quasi fa concorrenza alla Mariangela Fantozzi! Ehi, fa’ un po’ vedere cos’hai lì sotto? Però, ha un bel paio di tette la Sfigata… mi sa che oggi qualcosa le tocca…

 Ridono, mentre si passano una canna. Salgono in auto; si sentono grandi, onnipotenti. Qualcuno mi spinge: dai, vieni anche tu che ti facciamo divertire. Vorrei gridare di no, ma dentro non trovo più la forza. Voglio essere come loro, una di loro, basta che tutto finisca in fretta. Poi le luci che feriscono gli occhi, la musica che stordisce. E quel bicchiere che tengo tra le mani e che si riempie una, due, tre volte. Qualcuno mi butta su un divanetto; sono ubriaca, non riesco nemmeno a parlare, a muovere un dito. Non sento più niente. Adesso sono come loro.

Sei sicura di star bene? Hai un colore che non mi piace… vieni qui che ti provo la febbre. Ma si può sapere cosa hai combinato ieri sera? Ti ho sentita tornare che erano le tre passate… Meno male che tuo padre non era sveglio, sennò due scappellotti non te li toglieva nessuno!

Non è facile avere quindici anni e non riuscire a parlare con la propria madre. Io non ci ho nemmeno provato; pensavo che i miei occhi rossi, i silenzi a occhi bassi, la musica spenta nella mia stanza, gli scaldamuscoli dimenticati sul pavimento, e il cibo rifiutato con qualche scusa avrebbero parlato per me. Non è facile dire certe cose quando ti accorgi che l’unico desiderio di tua madre è sapere di aver messo al mondo la figlia perfetta, mentre quello di tuo padre è ottenere una promozione in ufficio. Non è facile quando sei sola, quando non hai amiche di cui fidarti e tutti ti chiamano Sfigata.

È molto più facile chiudersi a chiave in camera e passare ore davanti al pc,  dove nessuno sa chi c’è dall’altra parte, e dove ho finito per credere di essere anch’io come tutti gli altri. Lì puoi fingerti più grande di quella che sei, disinibita e provocante. Puoi provare ad essere donna con l’animo di una bambina. Puoi giocare a mostrarti quella che gli altri ti hanno costretta ad essere, distruggendoti col disprezzo, il ridicolo, l’umiliazione.

Puttana. Sei solo una puttana.

Così c’era scritto con la vernice rossa sulla porta del garage. Perché loro non mi hanno mollato; adesso che credevo di avercela fatta a essere come loro, mi hanno respinta, ancora una volta. Non ero solare, moderna, disincantata, ero solo una puttana. Ma è difficile essere una puttana quando hai quindici anni e la vita non ti ha ancora insegnato come si incassano i colpi bassi.

Ammazzati e facci felici.

Hanno aggiunto sotto e io li sento ancora sghignazzare, mentre uno dopo l’altro mi si buttano addosso su quel divanetto che puzzava di alcol e della mia paura. A loro basta poco per essere felici; gli basta sapere che sparirò dalla faccia della terra, che non vedranno più i miei denti da coniglio e i capelli color topo. Io che felice non sono mai stata: non come gli altri volevano che io fossi, non come sognavo, quando mi addormentavo sfinita sul cuscino bagnato, pregando di non svegliarmi più.

Così è stato facile uscire sul balcone, chiudere gli occhi e lanciarmi nel vuoto. Volare, sapendo che tutto sarebbe finalmente finito. Sapendo che avrebbero dovuto cercarsi un’altra sfigata: io adesso ero libera.

Ti osservo, mentre ti chini a mettere una rosa bianca tra i fiori di campo che mi porti ogni giorno sempre alla stessa ora; quella in cui c’è meno gente e puoi fermarti a parlare con me più a lungo, senza che nessuno ci disturbi. Ma oggi c’è qualcosa di diverso: forse è solo una sensazione, ma il sole è un po’ più caldo, l’azzurro del cielo un po’ più intenso, e le tue lacrime meno tristi.

Lara, era una ragazza come voi. Lara amava, anzi no!, lei ama la musica e la danza come molti di voi… Lara aveva tutta la vita davanti e il diritto di viverla a modo suo. Nessuno potrà mai togliervi questo diritto, perché voi tutti siete Lara!


Oggi hai parlato di me, lo hai fatto davanti a ragazzi della mia età e alla fine, quando ti hanno applaudita hai sorriso; era da tanto, troppo tempo che non lo facevi più. Adesso anche tu sai che questo dolore non è stato vano, e io non sento più le loro voci. Ora posso addormentarmi in pace, mamma.



1 commento:

  1. Emozione a mille. Racconto coinvolgente e pieno di sensazioni forti. Complimenti meritatissimi!
    Carmen (Duepuntozero)

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