mercoledì 10 maggio 2017

Dani #11: Pillole di me


Pillole di me

Oggi ho voglia di giocare: a prendermi un po’ in giro, a sdrammatizzare, a ridere di me all’ombra delle mie serene manchevolezze. E lo faccio con tante pillole colorate che ricordano stati d’animo diversi, ma sempre complementari: felicità e malinconia, umorismo e serietà. Piccoli assaggi di sogni, illusioni, delusioni, fragilità e certezze.

Perché così è la vita: basta saperla prendere a piccole dosi!

Bevo la vita

La questione sta tutta dentro un bicchiere; di Barolo o Bardolino, quel che conta è che sia un vino buono e sincero. Uno di quelli che mandano in estasi le papille con aromi di spezie e sottobosco e che, quando scendono giù per la gola, sai già che abbatteranno tutte le tue barriere.

            Nessun vino mi ha mai delusa, nessuno mi ha mai abbandonata, dopo avermi fatto girare la testa. Di solito sono io a scegliere lui, e non viceversa: è il bello di questa nostra relazione mai banale, quasi sempre barricata e, a volte, barcollante. 

E stasera, una come tante, sono uscita di punto in bianco e adesso sono qui seduta in questo bar: io e una bottiglia di un vino bianco, frizzante, che mi ha già riempito la testa di mille bollicine. Boom boom le sento esplodere una alla volta e non riesco a trattenere una risata che mi scoppietta sulla labbra come il respiro di un cavallo bolso.

            «Ehi tu, barman! Voglio offrirti un goccio - dai forza! - bevi alla mia salute!» Biascico, mentre allungo la bottiglia, ormai vuota, all’uomo con una bandana a stelle e strisce sulla fronte che mi guarda da dietro il bancone.

            «E non stare lì a fissarmi come un baccalà! Che c’è, non hai mai visto una signora un po’ brilla? Non sarai uno di quei bellimbusti che con le donne pensano di poter fare il bello e il cattivo tempo?» Ma già la testa mi cade pesante come un macigno e le parole si smorzano in un balbettio confuso.

            Orme di passi sulla battigia risplendono sotto la luce biancastra delle stelle. È buio, ma riesco a contarle. La musica di una balera sulla spiaggia mi porta il ritmo di una bachata languida dentro il calore di questa notte estiva. La ascolto e i battiti del mio cuore accelerano impazziti come i nostri fianchi allacciati.

Con la mano allontano dagli occhi l’ultimo barlume di  coscienza che mi impedisce di assaporare tutta questa beatitudine, e mi abbandono: ai tuoi baci che esplorano la mia pelle, alle tue braccia che stringono il mio domani. Mi basta solo un attimo ancora per sapere che sei tornato da me; un ballo, un altro, e resterai con me, eternamente bello come un dio greco.

            La musica incalza e martella le mie tempie. No, questo è davvero un martello – niente potrebbe fare tanto baccano! – che batte incessante nella mia testa e un brusio di voci lontane lo accompagna come un’orchestra stonata.

            «Sveglia, signora!, sveglia! Dobbiamo chiudere» Sta gridando l’uomo con la bandana e  il tuo volto abbronzato scolora sul fondo del mio bicchiere.

            Mi alzo e barcollo verso l’uscita; non ho più un briciolo di dignità, e lo stomaco brucia come l’inferno, dove un giorno ritroverò i tuoi occhi che ho perso dentro una bottiglia.



Fermo Posta Felicità

Fermo Posta Felicità.  Sembra il titolo di un film, vero? E, invece, potrebbe essere quello della mia vita; una vita trascorsa nella folle ricerca dell’amore, quello con tutte le lettere maiuscole, naturalmente. L’amore che – e sono certa che è stato così anche per voi! -  ci hanno insegnato a sognare fin da fanciulle: quello che finisce col matrimonio e una fila di figli da poterci fare una squadra di calcetto, tanto per capirci. Già quell’amore…

Moglie fedele, regina del focolare e madre di famiglia, così era stata mia madre, così sarei diventata anch’io. Il mio futuro era già segnato e, per anni, questi erano stati i punti fermi della mia vita, finché un giorno era comparso lui: Federico, professore di filosofia. Ci eravamo messi a chiacchierare mentre aspettavamo il filobus 73; scesi in Piazzale Famagosta avevamo cominciato a scambiarci furiosamente opinioni e baci, e alla fine di febbraio ci stavamo già sposando a Firenze, la sua città natale. A raccontarlo sembra una follia, ma – vi assicuro – abbiamo vissuto felici e contenti per una decina d’anni come nelle più belle fiabe.

Poi - non so nemmeno io come - perdemmo il filo dei nostri discorsi sempre più frammentari, finimmo con l’annichilirci a vicenda e, finalmente, cessammo di esistere l’uno per l’altra. Fuori dalla mia vita! Esultai, ma la fibrillazione euforica durò il tempo di un fuoco d’artificio.

Seguirono giorni pieni di false partenze, e notti senza fissa dimora dentro letti fugaci che abbandonavo con fughe degne di Fantômas, non appena percepivo nell’aria sentore di relazione fissa. Fragilità il tuo nome è donna, ma nel mio caso era facilità.

Una tipa facile, una femmina mangia uomini: falsa, fedifraga e col fanculo sempre pronto per mettere la parola fine a una storia. Questo era diventata la fanciulla con le farfalle nel cuore che, adesso, farneticava di finti organismi e giocava con flebili lamenti sfiorando con le dita una tastiera, come un tempo faceva con la fronte febbricitante di un fidanzato.

In quel fiume straripante di profili fake e foto ritoccate in cui mi tuffavo ogni notte, in fondo in fondo speravo di trovare qualcuno che riuscisse a portare in salvo la donna che, faticosamente, ancora fremeva per quel sogno d’amore eterno finito con una firma davanti a un giudice frettoloso.

Click dopo click mi ritrovai, fatalmente, a cercare emozioni sempre più forti per saziare la mia fame bulimica di vita. Funambola senza rete camminavo sul filo del pericolo, stordendomi di sesso e “fumo” come una falena attratta dalla luce di un falò.

Facce e voci sconosciute riempivano le mie notti, finché una lama fredda in un vicolo senza nome fermò la mia lucida frenesia di distruzione. Fu il rosso del mio sangue sull’asfalto a farmi decidere di spegnere quel fuoco infernale che aveva mandato in fumo la mia vita.

Fermo Posta Felicità è il mio nuovo recapito: un indirizzo senza francobollo, un angolo fatato di mondo, o, forse, uno spicchio di cielo, dove non fermano corriere e non passano né strade né ferrovie.

Fantasie! direte voi, ma – fidatevi! –  sta in queste tre parole la mia nuova identità; sono tornata ad essere la fanciulla con le farfalle nel cuore di tanto tempo fa, e non mi è servito nient’altro per riprendere a volare in alto sulle ali della mia felicità.




Localmente mosso

Localmente mosso. Lascio le lenzuola dove non trovo più il calore del tuo corpo e scendo in cucina. Nel lavello piatti sporchi e padelle incrostate mi osservano. Passo oltre e mi verso una tazza di caffè;  il liquido denso e nero agita i miei pensieri.  Te ne sei andata,  lieve come la neve che si scioglie prima di toccare il mare. Guardo fuori dalla finestra e un cielo livido e freddo  mi dice che oggi non andrò al lavoro. Oggi ho solo voglia di spegnere il cervello e leccarmi il cuore. Piatti sporchi e padelle incrostate nel lavello; li laverò domani.

C’è un solo luogo dove riesco a lasciarmi andare, dove il tempo scorre più lento e lecca la mia mano come un gatto dalla lingua ruvida. E mentre ascolto il respiro del mare che mi insegue e si ritrae, provo a lisciargli il pelo, per farmelo amico.

Spruzzi di onde tagliano la mia pelle come lame di sale, mentre cammino sulla sabbia scura. Un gabbiano stride alto nel cielo; non ci sono conchiglie oggi sulla spiaggia e nemmeno frammenti di libertà.

Siamo sempre stati una contraddizione lampante, io e te. Liti violente e  lassi di tempo senza una parola. Troppo diversi, discordanti, inconciliabili, io e te. Luna e sole giravamo su orbite lontane, in una Via Lattea che solo noi abitavamo. Ci siamo sfiorati, scontrati e allontanati; per poi tornare a ripetere tutto daccapo come se stessimo seguendo due linee rette. Perfettamente dritte e mai destinate a divenire una sola.

Eppure siamo stati così lacunosamente uguali, io e te.  Più simili nel male che nel bene, ci siamo presi, lasciati e poi ripresi: completamente persi in un labirinto di lussuria e leggerezza. Abbiamo bevuto insieme lacrime liberatorie, lordato lenzuola intrise dei nostri languori e scritto sulle labbra i nostri peccati.

Legami e liberami; è sempre stato questo il nostro gioco. Io cercavo di legarti ai miei sogni, tu volevi liberarti per poter tornare da me. Tu desideravi legarmi ai tuoi giorni lenti, e io liberarmi dai miei perché. Incatenati come schiavi l’uno all’altra non abbiamo mai alzato il capo al cielo; quel cielo che, intanto, splendeva limpido e luminoso sopra di noi.     

 Lingue di sabbia luccicano sotto i miei piedi che ancora ricalcano le tue orme lontane. Te ne sei andata, lieve come la spuma che non arriverà a domani. Ladra di sogni non hai lasciato nulla dietro di te. Neanche la rabbia e il tuo nome da gridare al vento. Guardo il gabbiano cullarsi sull’orizzonte, mentre lampi salmastri lambiscono le mie guance.

Localmente mosso. Ho spento il cervello, ma non sei tornata. Il letto mi aspetta con le lenzuola sfatte che ancora mi parlano di te; in questa casa che non ha luci né specchi, e dove il tuo respiro non è più su di me. Passo accanto al lavello; piatti sporchi e padelle incrostate mi scrutano muti. Oggi ho solo voglia di leccarmi il cuore e lustrare il dolore. Li laverò domani. Domani.




Peanuts

Porco. Del porco non si butta via niente, e tu eri un porco. Sissignore, un gran porco. E allora perché non ho tenuto nulla di te?

            Come dice il proverbio, o forse era una parabola? Non gettate le perle ai porci e, per la miseria, con tutte quelle che ti ho dato avrei potuto farci un’intera parure: collana e orecchini pendant.

            Penelope tesse la tela e la disfa di notte per non andare in sposa ai Proci. E Ulisse intanto se la spassa sull’isola con Circe che tramuta i suoi poveri compagni in porci. Paese che vai, usanze che trovi, ma in qualsiasi posto capiti è pacifico che del porco non si butta via niente; neanche il piede che, palesemente, si tramuta in zampone.

            Parole, parole, parole. Brutta puttana del Peloponneso! Urlavi quando tornavi dal pub dove avevi perso cinque mani di poker e pagato altrettante pinte di birra ai tuoi parchi paesani. E io passavo le pene dell’inferno a fare e disfare una tela di pelo di cane morbido come il vecchio Argo. Un cane pastore bastardo che amava spaventare le pecore, e poltriva interi pomeriggi sulla porta di casa.

            E se, invece di una tela pidocchiosa, avessi giocato con la palla di pelle di pollo fatta da Apelle figlio di Apollo? Ma come proseguiva la filastrocca? Ah sì, e tutti i pesci vennero a galla per vedere la palla. Un pescatore getta le reti nel mare profondo. Ehi lei, pesca i persici? O che non si vede che codesta è la palla di Apelle?

            Volere è potere, dormire è forse sognare, pensare è la prova dell’esistenza. Ma chi pensa col pene compie peccato mortale o veniale? Auto parcheggiate in doppia fila attendono di far salire a bordo prostitute molto professionali: sesso protetto e tute di pelle nera.

            Ulisse non è ancora tornato e Telemaco grida papà, mentre piange a dirotto. O forse chiede la pappa? Il vecchio Laerte gira per casa col pappagallo e la sua prostata infiammata non ha una bella cera.

            Tessi la tela, disfa la tela; quasi, quasi stasera vado in pizzeria col più piccolo dei Proci, tanto per distrarmi un po’. Ma se esco, poi chi cambia il pannolino a Telemaco e il pannolone al vecchio piscione?

            Ho capito, anche stasera plaid, divano e tisana al pino mugo (peccato la play-station ancora non c’è!). Metto un post-it sul frigo: torna Ulisse, prima o poi…

            Tessi la tela, disfa la tela, ma che palle! Perché proprio a me? Squilla il telefono e mi passano Apelle. Pare abbia perso la sua palla di pelle di pollo. Forse, non so.





Tempo al tempo

Tic, tac, tic, tac. Tempo; batte veloce sui tacchi come un ballerino di tip tap in una corsa tachicardica a tutto ritmo.  Prendi tempo se non ce l’hai, perdi tempo se non sai come trattenerlo tra le dita tremanti quando scorre tedioso. Manca il tempo: sempre, tragicamente. Non so se ce la farò a non ascoltare il trascorrere del tempo. No, devo tacere e smettere di pensare. Tralascio teoremi che non mi appartengono e taccio nomi che non conosco: devo tenere il tempo.  

Tic, tac, tic, tac. Tempo; non basta mai come i baci di due amanti separati troppo a lungo. Siediti e lascia scorrere tutto. Solo tu puoi guardarti dentro: tempo presente, passato e futuro. Tempo infinito che sembra finito. Un pianto lontano mi travolge come un mare in tempesta; sale la marea e trascina via tutto in un vuoto senza tempo. Ho paura del tempo che non trovo, ma che cerco, testardamente. Non ho più tempo di telefonare, telecomandare, taggare e twittare. Non so quanto durerà il mio tempo e forse non saprò mai dare tempo al tempo.

Tic, tac, tic, tac. Tempo; si tende come un filo sottile che tiene uniti due punti infiniti: io e te. Ho tante cose da fare, non toglietemi il tempo! Che senso ha concedere tempo se poi un giorno finirà? No, non voglio saperlo! Chi mi insegnerà come rinunciare al tempo? Ho sperato, tenacemente, di non trovarmi da sola a dire addio al mio tempo. Dove va a finire il tempo?

Tic, tac, tic, tac. Tempo; datemi il tempo che un ladro taciturno mi ha rubato dentro notti tenebrose. Il tempo di lasciare le cose che mi sono appartenute, le persone che non mi apparterranno più, i miei talenti nascosti sotto un tumulo di terra scura. Datemi il tempo e lasciatemi piangere il tempo che non ho. Si alzano le onde e il mare mi avvolge nel suo tempo senza orizzonte. Tremo, sotto un temporale di fulmini titanici, perché so che, quando il mio tempo finirà, non avrò avuto il tempo: per tutto, per tutti.

Tic, tac, tic, tac. Tempo; ti ritrai come un guerriero timoroso davanti all’eternità. Basta, basta con questa tortura! Perché tergiversare ancora? Chiudo gli occhi, mentre ascolto il tuo battito tiranno che tregua non da’. Sto solo sprecando del tempo, ma ancora temporeggio, mentre lacrime turgide mi bagnano il petto.


Tic, tac, tic, tac. Tempo; insieme a te ho tessuto trame di sogni, trapunto il cielo di stelle e tracciato sentieri umidi sulla pelle. Stendo le mani e già non mi appartieni più: a te mi aggrappo, tenue filo di luce, a te che trionfante mi traghetti nell’immortalità.


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