lunedì 2 gennaio 2017

Dani #6: L'altalena della vita


             L’altalena della vita è il titolo del mio racconto, premiato con la pubblicazione nell’antologia La finestra sui racconti, Laura Capone Editore, tra i vincitori della sezione Narrativa della IV ed. Premio Nazionale Letteratura Italiana Contemporanea, 2016.

          Ha rappresentato per me un momento di riflessione; malinconica e sognante, ma sempre piena di speranza e amore per la vita. E proprio per questo voglio condividerlo con voi in questo nuovo inizio d’anno


               Buona lettura e Buon Anno a tutti!


L’ALTALENA DELLA VITA

Da quando Pedro se n’è andato, la casa sembra ancora più grande e il silenzio è così denso che mi prendono le vertigini. Vorrei uscire a respirare un po’ d’aria sgombra di ricordi e rimpianti, ma non ce la faccio neppure ad alzarmi dal tavolo della cucina, dove un piatto ancora mezzo pieno e un bicchiere sbeccato mi rimproverano desolati.

Eppure un tempo questa casa risuonava di voci e risate e la cucina era sempre affollata di amici che arrivavano all’improvviso per chiacchierare e poi si fermavano fino a tardi; tanto da Pedro e Maria un piatto di maccheroni e una bottiglia di vino rosso non mancavano mai.

Guardo fuori dalla finestra che dà sul giardino; non c’è un alito di vento e le foglie delle palme, sferzate dai raggi implacabili dello zenit, pendono immobili come bandiere ammainate davanti al nemico vittorioso.

Esattamente come il mio tempo adesso: quello della resa. Già quel tempo che come un gatto sornione ti fa credere che non finirà mai di stupirti e rallegrarti con le sue dolci fusa, per poi graffiarti, così per capriccio quando meno te lo aspetti, proprio mentre ti sta leccando con la sua lingua ruvida come una raspa. Solo per farti capire che lui, il tempo, fa quello che gli pare, e che è lui a decidere quanto a lungo ti si concederà.

Nell’angolo più soleggiato del giardino, accanto agli oleandri dai fiori così fitti che paiono enormi grappoli d’uva matura, quello rosa l’avevamo piantato quando era nata Clelia e quello rosso quando era arrivato Carlos tre d’anni dopo, c’è ancora l’altalena.

Pedro l’aveva costruita con una tavola di legno a cui aveva agganciato due lunghe cime, le stesse con cui legava al molo la barca a motore con la vecchia lanterna a petrolio che tante notti l’aveva accompagnato nelle sue uscite verso Capo Orso, dove enormi banchi di sardine argentate guizzavano al chiarore della luna, e l’aveva fissata al ramo più basso e robusto di un pino. 

Osservo l’altalena sbattendo le palpebre che ormai pesano sui miei occhi stanchi: lentamente, quasi impercettibilmente, colgo un movimento che diventa sempre più deciso e cadenzato. L’altalena ha ripreso a dondolare nell’aria immobile di un altro inutile giorno di attesa.

«Papà, papà corri! Carlos non vuole lasciarmi l’altalena. Diglielo tu che adesso tocca a me!» Clelia urla con i pugni piantati sui fianchi cercando di attirare l’attenzione di Pedro, addormentato sulla sedia di vimini in veranda con le braccia abbandonate sull’addome e il cappello abbassato sugli occhi. Sembra dormire profondamente, ma il sorriso che gli arriccia gli angoli della bocca mi dice che sta solo fingendo.

Pedro è innamorato di sua figlia e farebbe qualsiasi cosa per lei. Anzi in realtà l’ha già fatto molte volte. Burbero fino all’ombrosità, e poco incline a gesti e parole di tenerezza anche nella nostra intimità, è sempre stato incapace di resistere ai capricci e alle moine di Clelia.

Le basta tirare un po’ su col nasino a patata e sbattere gli occhioni color cioccolata, perché suo padre, quell’omone forte come un toro e con la pelle rugosa ispessita dalla salsedine, si pieghi a ogni suo volere. Come quando andammo alla festa del Santo Patrono e Clelia, che allora aveva due anni ed era alta come un soldo di cacio, si mise a piangere perché voleva toccare la statua del Santo. Allora Pedro se la mise sulle spalle e cominciò a correre, su e giù per le strette viuzze addobbate con un tripudio di fiori colorati, finché non riuscì a raggiungere i portatori e li convinse, sotto gli occhi inorriditi del parroco, a fermarsi un istante per permettere a Clelia di dare un bacio al simulacro dalle vesti dorate.

E pensare che Pedro, in quasi vent’anni di matrimonio, non ha mai ceduto ad alcun mio desiderio, bollando come futile e frivolo tutto ciò che non avesse a che fare con il bene dei figli, o la gestione della casa. Che dire, non mi ha mai fatto mancare il necessario, ma non mi ha mai regalato neppure dei semplici fiori di campo, per il solo piacere di farmi sorridere. A vederlo così remissivo con Clelia, lo ammetto, ho spesso provato un po’ di invidia e di amarezza per quella che considero la più crudele, eppure naturale ingiustizia del cuore.

          «Forza Pedro! Non fare lo scansafatiche! Clelia ti sta chiamando non farla aspettare, o scoppierà a piangere e poi dovrai sudare sette camicie per calmarla» Gli dico gustandomi sorniona la scena. 

Un grugnito mi risponde da sotto l’ampia tesa del copricapo, è il suo modo di dirmi so cosa fare non ti preoccupare. Col suo passo dinoccolato, che sembra assecondare il rollio delle onde, scende dalla veranda e si avvicina all’altalena. Solleva appena la mano e Carlos si blocca, scendendo con la testa bassa, sconfitto. Pedro gli arruffa la zazzera nera, mentre gli passa accanto senza dire una parola. Clelia al settimo cielo si accomoda sul seggiolino, si dà una spinta con le gambe e sorride complice al padre.

«Ci sono i biscotti alle mandorle appena sfornati in cucina» Dico a Carlos, sfiorandogli quasi inavvertitamente la mano, quando mi raggiunge in veranda. Ha solo sette anni, ma le ferite che ci vengono inferte da bambini non guariscono mai, e non oso guardarlo negli occhi. 

Mi appoggio a uno dei pilastri di legno e mi accendo una sigaretta, lo faccio sempre quando qualcosa sfugge al mio controllo. Sì, quella di voler controllare ogni cosa, emozioni e situazioni è, a detta di Pedro, una mia pessima abitudine. E li osservo. Questa volta sono io a sentirmi sconfitta e, irrimediabilmente, incapace di perdonare.

«Papà, mi fai andare più in alto? Voglio arrivare a toccare il cielo! Mi piacerebbe saper volare come gli uccelli, che non stanno mai fermi in un posto e vedono tante cose dall’alto!» Dice Clelia ridendo felice.

«Se vuoi volare figlia mia, non c’è bisogno che io ti spinga. Devi farlo da sola e vedrai che presto imparerai a volare»

«Ma papà, io non posso volare! Altrimenti avrei le ali! Dai, spingimi forte che non ho paura!»

«E fai bene a non averne! Ricordatelo quando un giorno vorrai volare via, e ti sentirai come un pulcino appena nato davanti all’immensità del cielo. Non aver paura di cadere Clelia, se vorrai realizzare il tuo sogno!»

«Sì, papà, volare è il mio sogno, la cosa più bella che riesco a immaginare. Sai la notte, quando mi accorgo che il respiro di Carlos si è fatto pesante e non si sentono altri rumori nella casa, chiudo forte gli occhi e penso a un cielo azzurro pieno di nuvole bianche e soffici come lana di agnello. E allora mi sento leggera, leggera come una piuma portata dal vento, e mi sembra di riuscire a toccare le nubi e sentirne il profumo. Perché le nuvole profumano, lo sapevi papà? Sanno di zucchero filato! È per questo che mi piace tanto, e che l’anno scorso ne ho mangiati tre bastoncini alla festa del paese»

«E come ti senti quando tocchi le nuvole?»

«Sono felice papà e non vorrei più tornare! Però quando mi sveglio, e mi accorgo che è stato solo un sogno, divento triste. Quando l’ho raccontato a Carlos, lui ha detto che sono strana e che la mamma non mi avrebbe più fatto mangiare lo zucchero filato. Ma tu mi credi, vero papà?»

«Ascoltami Clelia, anche se adesso non capirai tutto quello che sto per dirti, un giorno penserai al tuo papà con le mani grandi e callose e te ne ricorderai. Chi sogna non ha bisogno delle favole. Quelle sono per chi vuole illudersi che le cose cambino senza fare nulla. Un sogno è una conquista, una strada in salita, una parete ripida da scalare, un mare in tempesta che ti toglie il respiro e il sonno. Chi sogna sa che avrà sempre delle battaglie da combattere e non potrà avere pace finché non ce la farà. E tu ce la farai solo se crederai nei tuoi sogni e nella tua forza»

«Se lo dici tu papà, allora io ci credo! Però lo zucchero filato posso mangiarlo lo stesso, vero? Ma non lo diciamo alla mamma, sennò si preoccupa e mi fa bere l’olio di ricino per non farmi venire il mal di pancia!»

«Sarà il nostro segreto, bambina mia, ma adesso rientriamo in casa che la mamma e Carlos ci stanno aspettando per la cena. Forza dai, facciamo a gara: chi arriva ultimo sparecchia la tavola!»

Carlos è seduto a tavola con i biscotti ancora intatti davanti a sé. Ne ha sgranocchiati un paio, giusto per non disobbedirmi, ma poi li ha lasciati lì senza più alcun interesse. È tipico di Carlos perdere subito interesse per le cose. Non mi ricordo ci sia mai stato niente che sia riuscito ad attirare la sua attenzione a lungo. Né il cavallino di legno che gli avevamo regalato a Natale quando aveva quattro anni; aveva addirittura voluto mangiare in sella al suo destriero, ed ero riuscita a farlo scendere solo quando era crollato dal sonno la sera, ma poi a Capodanno se ne era già dimenticato e non lo aveva più toccato. Né il cucciolo di Border Collie che Pedro aveva comprato da un amico perché facesse compagnia ai bambini. Per i primi mesi Carlos non aveva permesso a nessuno di noi di prendersi cura della bestiola; lo nutriva, lo portava fuori a correre nei prati e se lo portava persino a letto la notte, nonostante glielo avessi proibito. Poi un giorno ci disse che Potty, così lo aveva chiamato, era stato cattivo e gli aveva ringhiato, e da allora non lo aveva più degnato nemmeno di uno sguardo. Neanche quando il povero cucciolo, ignaro della sua colpa, uggiolava disperato grattando con la zampa sulla porta chiusa della sua camera da letto. Alla fine Pedro aveva dovuto lasciare Potty da un cugino che abitava in campagna e aveva una decina di pecore che, ben presto, si abituarono alla sua presenza, più di quanto Carlos non fosse riuscito a fare in quei pochi mesi.

Carlos mi osserva, mentre sto controllando la cottura dell’arrosto che rosola sfrigolando in padella con le patate novelle. Posso sentire i suoi occhi che seguono i miei movimenti anche se sono girata di spalle.

«Carlos, mi dai una mano ad apparecchiare? Su da bravo, prendi la tovaglia e i tovaglioli puliti nel cassetto. Piatti, posate e bicchieri sono nella lavastoviglie. Fai attenzione, mi raccomando!»

È mio figlio, quel figlio maschio che ho voluto io più di Pedro che non aveva occhi che per Clelia, mentre io avevo bisogno di qualcuno che mi amasse, incondizionatamente, senza chiedersi se i miei pregi superavano i miei difetti e senza giudicare ogni mia azione. E il destino mi aveva dato Carlos.

E ora provo quasi compassione a vederlo girarmi intorno con quell’aria, svogliata e stanca, di chi ha già intuito che la vita che ci tocca tutto sarà tranne che giusta, e che l’amore e l’affetto sono solo per chi sa esigerli e prenderseli, senza rimorsi e sensi di colpa.

Lo osservo mentre toglie i piatti dalla lavastoviglie e li appoggia sul tavolo. Li impila uno alla volta, poi prende i bicchieri e li mette in fila accanto ai piatti. Vicini al bordo del tavolo. Troppo vicini. E l’ultimo gli scivola dalle mani e cade frantumandosi in mille pezzi. Proprio mentre stanno entrando Pedro e Clelia.

«Possibile che tu non riesca mai a fare niente senza combinare guai?» Dice Pedro. Non lo sta sgridando, la sua è solo una constatazione, nuda e cruda. E forse per questo fa ancora più male.

«Voglio che tu vada via! Tu sei cattivo con me come Potty!» urla d’un tratto Carlos e la sua voce mi trafigge dritto al cuore come una scheggia di vetro. Niente potrà più essere come prima.


Una notte Pedro mi svegliò alle quattro.
«So quello che devo fare. Non ti preoccupare» Disse mentre si infilava gli stivali da pesca, prima il sinistro e poi il destro come al solito per scaramanzia. Mi diede un bacio sulla fronte e uscì chiudendo piano la porta. Non l’aveva mai fatto e avvertii che stava per succedere qualcosa.

La pesca delle sardine non ci avrebbe mai permesso di avere una grande casa in collina e di vivere più che discretamente. Avevo intuito che Pedro aveva trovato un modo per arrotondare le entrate, anche se lui non mi diceva nulla. Mi era bastato però vederlo un paio di volte appartarsi in paese con uno degli uomini di Don Michele, il boss del contrabbando di sigarette, per capire.   

La sua barca a motore fu trovata, miracolosamente intatta, al largo di Capo Orso, dopo una furiosa tempesta che aveva disperso altri due pescherecci. Di Pedro nessuna traccia:  i sommozzatori dovettero ben presto interrompere le ricerche a causa delle condizioni avverse del mare. Solo tre giorni dopo il suo corpo, trascinato dalle correnti, fu ritrovato nei pressi del promontorio del Castelluccio, sfigurato dalle rocce taglienti della scogliera a picco sul mare.

Non ebbi neppure il tempo di smettere il lutto, che arrivò una raccomandata da una grande compagnia di assicurazioni. Ero l’unica beneficiaria della polizza sulla vita che mio marito aveva stipulato e, dal momento che le autorità avevano chiuso il caso come uno sfortunato incidente, nulla e nessuno mi impediva di incassare il premio finale.

«Papà vorrebbe vedervi volare» Dissi a Clelia e Carlos una sera, mentre cenavamo in silenzio in cucina. Li guardai ancora una volta con gli occhi del cuore, cercando di fissare per sempre nella mente l’immagine dei miei bambini, anche se adesso avevo di fronte due giovani adulti. Così rimasi seduta in veranda a guardarli, quando, uno dopo l’altro, partirono per inseguire i loro sogni, senza più voltarsi indietro.

Il mare è la loro vita, come lo era stato per Pedro.
Quel mare che ci ha dato tanto e ci ha tolto tutto, che ha cambiato le nostre vite e segnato i nostri destini. Quel mare che Clelia studia come biologa marina, e Carlos naviga come sottufficiale della Marina Mercantile.

Mi alzo e raccolgo le forze per uscire un’ultima volta sulla veranda. L’aria rovente mi toglie il respiro, mentre a fatica scendo gli scalini che portano in giardino. L’altalena dondola ancora nel caldo infuocato del pomeriggio.

Mi sta aspettando, e io non voglio più rimandare. Adesso è arrivato il mio tempo di volare. Il tempo di vivere il mio ultimo sogno.

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