L’altalena
della vita è il
titolo del mio racconto, premiato con la pubblicazione nell’antologia La finestra sui racconti, Laura Capone
Editore, tra i vincitori della sezione Narrativa della IV ed. Premio Nazionale Letteratura Italiana Contemporanea,
2016.
Ha rappresentato per me un momento di
riflessione; malinconica e sognante, ma sempre piena di speranza e amore per la vita. E
proprio per questo voglio condividerlo con voi in questo nuovo inizio d’anno
Buona lettura e Buon Anno a tutti!
L’ALTALENA
DELLA VITA
Da quando Pedro se n’è andato, la casa sembra
ancora più grande e il silenzio è così denso che mi prendono le vertigini. Vorrei
uscire a respirare un po’ d’aria sgombra di ricordi e rimpianti, ma non ce la
faccio neppure ad alzarmi dal tavolo della cucina, dove un piatto ancora mezzo
pieno e un bicchiere sbeccato mi rimproverano desolati.
Eppure un tempo questa casa risuonava di voci
e risate e la cucina era sempre affollata di amici che arrivavano
all’improvviso per chiacchierare e poi si fermavano fino a tardi; tanto da
Pedro e Maria un piatto di maccheroni e una bottiglia di vino rosso non
mancavano mai.
Guardo fuori dalla finestra che dà sul
giardino; non c’è un alito di vento e le foglie delle palme, sferzate dai raggi
implacabili dello zenit, pendono immobili come bandiere ammainate davanti al
nemico vittorioso.
Esattamente come il mio tempo adesso: quello
della resa. Già quel tempo che come un gatto sornione ti fa credere che non
finirà mai di stupirti e rallegrarti con le sue dolci fusa, per poi graffiarti,
così per capriccio quando meno te lo aspetti, proprio mentre ti sta leccando
con la sua lingua ruvida come una raspa. Solo per farti capire che lui, il
tempo, fa quello che gli pare, e che è lui a decidere quanto a lungo ti si
concederà.
Nell’angolo più soleggiato del giardino,
accanto agli oleandri dai fiori così fitti che paiono enormi grappoli d’uva
matura, quello rosa l’avevamo piantato quando era nata Clelia e quello rosso
quando era arrivato Carlos tre d’anni dopo, c’è ancora l’altalena.
Pedro l’aveva costruita con una tavola di
legno a cui aveva agganciato due lunghe cime, le stesse con cui legava al molo
la barca a motore con la vecchia lanterna a petrolio che tante notti l’aveva
accompagnato nelle sue uscite verso Capo Orso, dove enormi banchi di sardine
argentate guizzavano al chiarore della luna, e l’aveva fissata al ramo più
basso e robusto di un pino.
Osservo l’altalena sbattendo le palpebre che
ormai pesano sui miei occhi stanchi: lentamente, quasi impercettibilmente,
colgo un movimento che diventa sempre più deciso e cadenzato. L’altalena ha
ripreso a dondolare nell’aria immobile di un altro inutile giorno di attesa.
«Papà, papà corri! Carlos non vuole lasciarmi
l’altalena. Diglielo tu che adesso tocca a me!» Clelia urla con i pugni
piantati sui fianchi cercando di attirare l’attenzione di Pedro, addormentato
sulla sedia di vimini in veranda con le braccia abbandonate sull’addome e il
cappello abbassato sugli occhi. Sembra dormire profondamente, ma il sorriso che
gli arriccia gli angoli della bocca mi dice che sta solo fingendo.
Pedro è innamorato di sua figlia e farebbe
qualsiasi cosa per lei. Anzi in realtà l’ha già fatto molte volte. Burbero fino
all’ombrosità, e poco incline a gesti e parole di tenerezza anche nella nostra
intimità, è sempre stato incapace di resistere ai capricci e alle moine di
Clelia.
Le basta tirare un po’ su col nasino a patata
e sbattere gli occhioni color cioccolata, perché suo padre, quell’omone forte
come un toro e con la pelle rugosa ispessita dalla salsedine, si pieghi a ogni
suo volere. Come quando andammo alla festa del Santo Patrono e Clelia, che
allora aveva due anni ed era alta come un soldo di cacio, si mise a piangere
perché voleva toccare la statua del Santo. Allora Pedro se la mise sulle spalle
e cominciò a correre, su e giù per le strette viuzze addobbate con un tripudio
di fiori colorati, finché non riuscì a raggiungere i portatori e li convinse,
sotto gli occhi inorriditi del parroco, a fermarsi un istante per permettere a
Clelia di dare un bacio al simulacro dalle vesti dorate.
E pensare che Pedro, in quasi vent’anni di
matrimonio, non ha mai ceduto ad alcun mio desiderio, bollando come futile e
frivolo tutto ciò che non avesse a che fare con il bene dei figli, o la
gestione della casa. Che dire, non mi ha mai fatto mancare il necessario, ma
non mi ha mai regalato neppure dei semplici fiori di campo, per il solo piacere
di farmi sorridere. A vederlo così remissivo con Clelia, lo ammetto, ho spesso
provato un po’ di invidia e di amarezza per quella che considero la più
crudele, eppure naturale ingiustizia del cuore.
«Forza Pedro! Non fare lo scansafatiche!
Clelia ti sta chiamando non farla aspettare, o scoppierà a piangere e poi
dovrai sudare sette camicie per calmarla» Gli dico gustandomi sorniona la
scena.
Un grugnito mi risponde da sotto l’ampia tesa
del copricapo, è il suo modo di dirmi so
cosa fare non ti preoccupare. Col suo passo dinoccolato, che sembra
assecondare il rollio delle onde, scende dalla veranda e si avvicina all’altalena.
Solleva appena la mano e Carlos si blocca, scendendo con la testa bassa,
sconfitto. Pedro gli arruffa la zazzera nera, mentre gli passa accanto senza
dire una parola. Clelia al settimo cielo si accomoda sul seggiolino, si dà una
spinta con le gambe e sorride complice al padre.
«Ci sono i biscotti alle mandorle appena
sfornati in cucina» Dico a Carlos, sfiorandogli quasi inavvertitamente la mano,
quando mi raggiunge in veranda. Ha solo sette anni, ma le ferite che ci vengono
inferte da bambini non guariscono mai, e non oso guardarlo negli occhi.
Mi appoggio a uno dei pilastri di legno e mi
accendo una sigaretta, lo faccio sempre quando qualcosa sfugge al mio
controllo. Sì, quella di voler controllare ogni cosa, emozioni e situazioni è,
a detta di Pedro, una mia pessima abitudine. E li osservo. Questa volta sono io
a sentirmi sconfitta e, irrimediabilmente, incapace di perdonare.
«Papà, mi fai andare più in alto? Voglio
arrivare a toccare il cielo! Mi piacerebbe saper volare come gli uccelli, che
non stanno mai fermi in un posto e vedono tante cose dall’alto!» Dice Clelia
ridendo felice.
«Se vuoi volare figlia mia, non c’è bisogno
che io ti spinga. Devi farlo da sola e vedrai che presto imparerai a volare»
«Ma papà, io non posso volare! Altrimenti avrei
le ali! Dai, spingimi forte che non ho paura!»
«E fai bene a non averne! Ricordatelo quando
un giorno vorrai volare via, e ti sentirai come un pulcino appena nato davanti
all’immensità del cielo. Non aver paura di cadere Clelia, se vorrai realizzare
il tuo sogno!»
«Sì, papà, volare è il mio sogno, la cosa più
bella che riesco a immaginare. Sai la notte, quando mi accorgo che il respiro
di Carlos si è fatto pesante e non si sentono altri rumori nella casa, chiudo
forte gli occhi e penso a un cielo azzurro pieno di nuvole bianche e soffici
come lana di agnello. E allora mi sento leggera, leggera come una piuma portata
dal vento, e mi sembra di riuscire a toccare le nubi e sentirne il profumo.
Perché le nuvole profumano, lo sapevi papà? Sanno di zucchero filato! È per
questo che mi piace tanto, e che l’anno scorso ne ho mangiati tre bastoncini
alla festa del paese»
«E come ti senti quando tocchi le nuvole?»
«Sono felice papà e non vorrei più tornare!
Però quando mi sveglio, e mi accorgo che è stato solo un sogno, divento triste.
Quando l’ho raccontato a Carlos, lui ha detto che sono strana e che la mamma
non mi avrebbe più fatto mangiare lo zucchero filato. Ma tu mi credi, vero
papà?»
«Ascoltami Clelia, anche se adesso non capirai
tutto quello che sto per dirti, un giorno penserai al tuo papà con le mani
grandi e callose e te ne ricorderai. Chi sogna non ha bisogno delle favole.
Quelle sono per chi vuole illudersi che le cose cambino senza fare nulla. Un
sogno è una conquista, una strada in salita, una parete ripida da scalare, un
mare in tempesta che ti toglie il respiro e il sonno. Chi sogna sa che avrà
sempre delle battaglie da combattere e non potrà avere pace finché non ce la
farà. E tu ce la farai solo se crederai nei tuoi sogni e nella tua forza»
«Se lo dici tu papà, allora io ci credo! Però
lo zucchero filato posso mangiarlo lo stesso, vero? Ma non lo diciamo alla
mamma, sennò si preoccupa e mi fa bere l’olio di ricino per non farmi venire il
mal di pancia!»
«Sarà il nostro segreto, bambina mia, ma adesso
rientriamo in casa che la mamma e Carlos ci stanno aspettando per la cena.
Forza dai, facciamo a gara: chi arriva ultimo sparecchia la tavola!»
Carlos è seduto a tavola con i biscotti ancora
intatti davanti a sé. Ne ha sgranocchiati un paio, giusto per non disobbedirmi,
ma poi li ha lasciati lì senza più alcun interesse. È tipico di Carlos perdere
subito interesse per le cose. Non mi ricordo ci sia mai stato niente che sia
riuscito ad attirare la sua attenzione a lungo. Né il cavallino di legno che gli
avevamo regalato a Natale quando aveva quattro anni; aveva addirittura voluto
mangiare in sella al suo destriero, ed ero riuscita a farlo scendere solo
quando era crollato dal sonno la sera, ma poi a Capodanno se ne era già
dimenticato e non lo aveva più toccato. Né il cucciolo di Border Collie che
Pedro aveva comprato da un amico perché facesse compagnia ai bambini. Per i
primi mesi Carlos non aveva permesso a nessuno di noi di prendersi cura della
bestiola; lo nutriva, lo portava fuori a correre nei prati e se lo portava
persino a letto la notte, nonostante glielo avessi proibito. Poi un giorno ci
disse che Potty, così lo aveva chiamato, era stato cattivo e gli aveva
ringhiato, e da allora non lo aveva più degnato nemmeno di uno sguardo. Neanche
quando il povero cucciolo, ignaro della sua colpa, uggiolava disperato
grattando con la zampa sulla porta chiusa della sua camera da letto. Alla fine
Pedro aveva dovuto lasciare Potty da un cugino che abitava in campagna e aveva
una decina di pecore che, ben presto, si abituarono alla sua presenza, più di
quanto Carlos non fosse riuscito a fare in quei pochi mesi.
Carlos mi osserva, mentre sto controllando la
cottura dell’arrosto che rosola sfrigolando in padella con le patate novelle.
Posso sentire i suoi occhi che seguono i miei movimenti anche se sono girata di
spalle.
«Carlos, mi dai una mano ad apparecchiare? Su
da bravo, prendi la tovaglia e i tovaglioli puliti nel cassetto. Piatti, posate
e bicchieri sono nella lavastoviglie. Fai attenzione, mi raccomando!»
È mio figlio, quel figlio maschio che ho
voluto io più di Pedro che non aveva occhi che per Clelia, mentre io avevo
bisogno di qualcuno che mi amasse, incondizionatamente, senza chiedersi se i
miei pregi superavano i miei difetti e senza giudicare ogni mia azione. E il
destino mi aveva dato Carlos.
E ora provo quasi compassione a vederlo
girarmi intorno con quell’aria, svogliata e stanca, di chi ha già intuito che
la vita che ci tocca tutto sarà tranne che giusta, e che l’amore e l’affetto
sono solo per chi sa esigerli e prenderseli, senza rimorsi e sensi di colpa.
Lo osservo mentre toglie i piatti dalla
lavastoviglie e li appoggia sul tavolo. Li impila uno alla volta, poi prende i
bicchieri e li mette in fila accanto ai piatti. Vicini al bordo del tavolo. Troppo
vicini. E l’ultimo gli scivola dalle mani e cade frantumandosi in mille pezzi. Proprio
mentre stanno entrando Pedro e Clelia.
«Possibile che tu non riesca mai a fare niente
senza combinare guai?» Dice Pedro. Non lo sta sgridando, la sua è solo una constatazione,
nuda e cruda. E forse per questo fa ancora più male.
«Voglio che tu vada via! Tu sei cattivo con me come Potty!» urla d’un
tratto Carlos e la sua voce mi trafigge dritto al cuore come una scheggia di
vetro. Niente potrà più essere come prima.
Una notte Pedro mi svegliò alle quattro.
«So
quello che devo fare. Non ti preoccupare» Disse mentre si infilava gli stivali
da pesca, prima il sinistro e poi il destro come al solito per scaramanzia. Mi
diede un bacio sulla fronte e uscì chiudendo piano la porta. Non l’aveva mai
fatto e avvertii che stava per succedere qualcosa.
La pesca delle sardine non ci avrebbe mai permesso di avere una grande
casa in collina e di vivere più che discretamente. Avevo intuito che Pedro aveva
trovato un modo per arrotondare le entrate, anche se lui non mi diceva nulla.
Mi era bastato però vederlo un paio di volte appartarsi in paese con uno degli
uomini di Don Michele, il boss del contrabbando di sigarette, per capire.
La sua barca a motore fu trovata, miracolosamente
intatta, al largo di Capo Orso, dopo una furiosa tempesta che aveva disperso
altri due pescherecci. Di Pedro nessuna traccia: i sommozzatori dovettero ben presto
interrompere le ricerche a causa delle condizioni avverse del mare. Solo tre
giorni dopo il suo corpo, trascinato dalle correnti, fu ritrovato nei pressi
del promontorio del Castelluccio, sfigurato dalle rocce taglienti della
scogliera a picco sul mare.
Non ebbi neppure il tempo di smettere il lutto, che arrivò una
raccomandata da una grande compagnia di assicurazioni. Ero l’unica beneficiaria
della polizza sulla vita che mio marito aveva stipulato e, dal momento che le
autorità avevano chiuso il caso come uno sfortunato incidente, nulla e nessuno
mi impediva di incassare il premio finale.
«Papà vorrebbe vedervi volare» Dissi a Clelia e Carlos una sera,
mentre cenavamo in silenzio in cucina. Li guardai ancora una volta con gli
occhi del cuore, cercando di fissare per sempre nella mente l’immagine dei miei
bambini, anche se adesso avevo di fronte due giovani adulti. Così rimasi seduta
in veranda a guardarli, quando, uno dopo l’altro, partirono per inseguire i
loro sogni, senza più voltarsi indietro.
Il mare è la loro vita, come lo era stato per Pedro.
Quel
mare che ci ha dato tanto e ci ha tolto tutto, che ha cambiato le nostre vite e
segnato i nostri destini. Quel mare che Clelia studia come biologa marina, e
Carlos naviga come sottufficiale della Marina Mercantile.
Mi alzo e raccolgo le forze per uscire un’ultima volta sulla veranda.
L’aria rovente mi toglie il respiro, mentre a fatica scendo gli scalini che
portano in giardino. L’altalena dondola ancora nel caldo infuocato del
pomeriggio.
Mi sta aspettando, e io non voglio più rimandare. Adesso è arrivato il
mio tempo di volare. Il tempo di vivere il mio ultimo sogno.