venerdì 5 gennaio 2018

Dani #18: Nei campi



Nei campi
Un racconto di Daniela Quadri


L'anno scorso avevo partecipato al Concorso Letterario 2017 indetto da Cultora e dalla casa editrice Historica nella sezione racconti brevi. E, dopo qualche mese, avevo ricevuto la bella notizia: il mio racconto Nei campi era stato selezionato per far parte dell'antologia dedicata agli scrittori del Nord. Una bella soddisfazione, non c'è che dire, che entrerà nell'album dei miei ricordi di scrittrice di "belle speranze" :-)

Adesso non mi resta che proporvelo come faccio spesso con i miei scritti; chissà magari a qualcuno potrebbe anche piacere.

Buona lettura!




Il sole è a picco e il calore che sale dal terreno è soffocante. Se non fosse per il cielo di un azzurro accecante penserei di essere all’inferno, anche se non so quale crimine sto espiando. O forse sì: la povertà è una colpa che ci si porta addosso dalla nascita e che si trasmette come il peccato originale.
Chiedo alla caposquadra di potermi fermare un attimo per bere un sorso d’acqua, ma lei mi ride in faccia: dice che sono troppo vecchia per questo lavoro e che domani non dovrò scomodarmi, tanto ce ne sono altri che lo faranno al posto mio, senza lagnarsi.

Lavoro, dice.  Mi alzo tutte le notti alle tre; giusto il tempo di lavarmi la faccia e buttare giù un caffè che sa di bruciato - i miei figli li sfioro solo con un bacio per paura di svegliarli - e sono già per strada. Salto in sella alla bicicletta e pedalo al buio fino alla strada, dove ci aspetta il camion che ci porta nei campi. Siamo una trentina: stranieri, giovani, ma soprattutto donne. Donne come me che non hanno trovato niente di meglio per guadagnare qualche soldo con cui apparecchiare la tavola e comprare un paio di scarpe, ché non si può sempre andare in giro con i buchi nelle suole e arrivare a fine giornata con lo stomaco che borbotta dalla fame.

Io sono stata fortunata. Mi ha scelta il caporale per cui lavorava mio marito, prima che quel suo vizio di bersi la paga gli avvelenasse il fegato. Quante volte gli avevo urlato contro: ma che cosa aveva in quella testa vuota? Con cosa pensava potessimo tirare avanti, se continuava a buttare quei due soldi che guadagnava nel vino annacquato che compare Cerello vendeva giù all’osteria? Cosa gli passava per la testa l’avrei capito qualche anno dopo. Dopo che mio marito se n’era andato in ospedale e non era più tornato: cirrosi epatica esotossica, aveva detto a voce alta il dottore con il camice bianco agli studenti che lo seguivano prendendo appunti. Ma lo aveva detto con il tono sprezzante di chi sta pensando: un altro ubriacone col fegato marcio venuto a morire a spese dello stato.

L’avevo capito quando, dopo averlo sepolto in una bara di poco prezzo nel campo comune del cimitero in cima alla collina, mi ero presentata vestita a lutto a Don Vito, il suo caporale. Basso, panciuto, ma con i baffi ben curati e sempre con il cappello in testa, Don Vito era rimasto a fissare, cinque minuti in silenzio, la punta consumata dell’unico paio buono di scarpe che mi era rimasto. Forse stava commiserando la vedova di un altro ubriacone col fegato marcio che aveva trovato la maniera di non lavorare più nei campi o, forse, stava solo valutando se potevo farcela: a spaccarmi la schiena al posto suo. Domani mattina all’incrocio del Cane Pinto, prima che il cielo schiarisca, aveva detto, distogliendo lo sguardo scuro dalla punta consumata delle mie scarpe buone.

Un galantuomo, dicono di lui in paese, uno né meglio né peggio di tanti altri, penso io. Perché l’unica cosa di cui sono sicura è che, per loro, io sono una bestia da lavoro. No, non è vero; se un animale si ammala o si azzoppa viene curato perché altrimenti ci perdono soldi, ma se io muoio a questi non gliene frega niente! Tanto non c’è nessun contratto di lavoro, è tutto sulla parola: la mia contro quella di questi galantuomini.




Mi danno due euro all’ora e la mia giornata è di dodici ore. Mi chiamano bracciante, ma in realtà sono una schiava; mio figlio minore, che fa la terza media e sta studiando la Guerra di Secessione, mi ha detto che la schiavitù è stata abolita da Lincoln, ma io sono la prova vivente che sono tutte chiacchiere. Venisse a vedere questo Lincoln come ci trattano qui! Neanche una pausa per pisciare ci danno; la devi tenere finché la vescica non esplode e, allora, tante preferiscono farsela addosso, sennò quelli poi ti tolgono anche i soldi della sosta, oltre al pizzo per i caporali. Solo respirare ci è concesso, ché l’aria è ancora gratis e se non tiriamo il fiato schiattiamo tutte!



Ma se penso ai miei figli, anche questa schiavitù mi diventa leggera! Il piccolo è studioso – non so da chi abbia preso, perché sia io che suo padre abbiamo finito a fatica le elementari -, e da grande dice di voler fare il medico. Per curare quelli che hanno la stessa malattia di papà, dice sempre, e ride con quei suoi bei denti bianchi, quando io aggiungo che nessun medico ha ancora scoperto la cura per la povertà! Il maggiore, che sembra il ritratto di suo padre quando lo conobbi che avevo dodici anni, ha lasciato la scuola da tempo. I libri non facevano per lui, mi aveva detto un giorno e a scuola non c’era più tornato. Fa l’imbianchino ed è anche bravo, ma si arrabbia quando lo chiamo così. Perché lui è pittore e l’ha scritto sui bigliettini che si è stampato giù alla stazione: Mimmo, pittore a domicilio. Li ha lasciati in giro dappertutto, persino nella cassetta delle offerte per i poveri in chiesa, ma non è che l’abbiano chiamato in tanti. Però lui si alza tutte le mattine all’alba e gira con la bustina fatta di carta da giornali in testa: prima o poi capiranno che sono un bravo pittore, ripete.  

Fa caldo. È normale, qui a luglio si arriva anche a quaranta gradi, ma oggi mi gira la testa e non mi reggo in piedi. Il mio filare, quello che mi è stato assegnato, sembra non avere fine, o forse è la mia vista che si sta offuscando.  Non riesco più a distinguere i grappoli d’uva che si sdoppiano e danzano davanti ai miei occhi. Cerco riparo sotto un ulivo che fa da sostegno ai vitigni: slego il fazzoletto che mi ripara la testa e asciugo le gocce di sudore che mi inondano il viso. Lo strizzo e me lo rimetto sulla testa, ma pochi secondi dopo sono di nuovo in un bagno di sudore. Per fortuna la caposquadra non mi ha vista. Solo Annina si è accorta che qualcosa non va e mi ha chiesto se ce la faccio a finire tutto il filare. Sì, ce la devo fare, anche se mi viene da vomitare e vorrei gettarmi a terra e non alzarmi più.



Annina è una delle poche a cui questo lavoro non ha portato via il cuore; quando devi lottare per sopravvivere, pensare agli altri è un lusso che non ci si può permettere. Ma lei è diversa, lei dice che l’anima non appartiene ai morti, ma ai vivi e chi non ce l’ha è già morto senza saperlo. Annina aiutatutte la sfottono le caposquadra, che stanno a guardare senza muovere un dito, quando una di noi cade a terra: tanto c’è Annina ad aiutarla a rialzarsi o a darle il cambio per una pausa sotto il tendone, dove non passa un filo d’aria. 

Solida e resistente come una quercia, la sua pelle color del cuoio sembra respingere i raggi del sole che arroventa anche le pietre. Eppure c’è stato un tempo in cui era bella: occhi grandi e profondi come una notte senza stelle e un viso di Madonna. Don Vito l’avrebbe voluta, anche solo per una notte, ma lei il suo Pietro l’amava davvero. Pietro se n’era andato a cercare fortuna; faceva l’autotrasportatore su e giù per l’Europa a portare frutta e verdura, quella che cresceva e maturava sotto il sole del paese. L’aveva fatto per anni; ogni tanto mandava un po’ di soldi ad Annina che continuava a dire di no a Don Vito. Poi un giorno non era arrivato più nulla. Pietro aveva messo da parte soldi sufficienti a comprarsi un camion e, pare, anche a mettere su famiglia. Una nuova, in Germania. Annina non si era rassegnata: troppo orgogliosa per accettare la sconfitta, troppo fiera per lasciarsi andare. Aveva continuato a respingere le proposte di Don Vito, ma aveva dovuto accettare di lavorare per lui. Nei campi, dove cresceva e maturava la frutta e la verdura che avevano arricchito il suo Pietro.

Annina aiutatutte è stata lei ad insegnarmi a fare l’acinellatura: a controllare i grappoli uno ad uno e a togliere gli acini troppo piccoli e brutti ché, altrimenti, l’uva non la si vende al mercato se non è perfetta. E per farlo devo stare come Gesù sulla croce, con le braccia perennemente alzate al cielo.



Il sole è sempre più caldo, l’aria infuocata e io non resisto più. Sento la voce di Annina che grida aiuto e capisco che non rivedrò più i miei figli. Non ho nemmeno il tempo di affidarli a Dio, di pregarlo perché a loro non debba mai toccare tutto questo, che per me c’è solo buio e freddo.

Mi chiamo Assunta e sono morta nei campi a 59 anni. Chissà se, quando mi seppelliranno, si ricorderanno di mettermi le scarpe buone con la punta consumata: quelle che Don Vito fissava per capire quanto a lungo avrei resistito. Ma poco importa chi se le prenderà; a noi schiavi hanno già rubato tutto, anche la dignità.



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