domenica 11 marzo 2018

Recensioni & Co. #22: Mi chiamo Lucy Barton

Mi chiamo Lucy Barton
Elizabeth Strout

Desideravo da tempo leggere questa scrittrice e, anche se non è il suo primo e forse nemmeno miglior romanzo, ho scelto Mi chiamo Lucy Barton. La storia mi intrigava: Lucy Barton viene ricoverata in ospedale per un'innocua appendicite che, a causa di un batterio sconosciuto, si trasforma in una lunga malattia che la costringe a una degenza di parecchie settimane. Lucy si sente sola, abbandonata e soffre la mancanza delle figlie, che le vengono portate in visita da un'amica che di figli suoi non ne ha, e del marito impegnato con il lavoro.

Ma un giorno, ai piedi del suo letto d'ospedale, Lucy troverà sua madre, o forse sarebbe meglio dire ritroverà. Dopo anni di lontananza e per la prima volta in vita sua la donna si è allontanata da Amgash, minuscolo paese dell'Illinois, dove abbondano le case diroccate, i campi di granturco e soia, gli allevamenti di maiali come in quasi tutti i paesi del Midwest, ha preso un aereo e poi un taxi, cosa che la terrorizza parecchio, è si è presentata dalla figlia.

A tenerle compagnia potrebbe sembrare, ma in realtà, nelle mia lettura, ci è andata per ritrovare se stessa e il loro rapporto madre-figlia: un rapporto interrotto, quasi congelato da un passato di miseria estrema, di emarginazione e di inadeguatezza nei confronti degli altri e della vita.

E questo rapporto si ricostruisce, con grande fatica da entrambe le parti, attraverso il racconto di episodi del passato che coinvolgono vicini di casa, parenti e conoscenti come Kathie Nicely, zia foca, i cugini Abel e Dottie, Marilyn Qualcosa, Mississippi Mary.

La madre la chiama Bestiolina, un vezzeggiativo che non usava da tempo e che scioglie quel grumo di tensione che Lucy sente dentro, e parla con un tono che Lucy non ricordava, come se tutte quelle sensazioni e sentimenti che non aveva mai espresso, adesso le uscissero in un sussurro disinibito.

E mentre la madre racconta e le sta accanto, aspettandola, seduta al buio nella sala d'attesa, nel sotterraneo dell'ospedale con le spalle curve per la sfinimento, uscire dalla Tac, Lucy ricorda a sua volta.

Ricorda la vita di una famiglia che fa schifo, come dicevano i suoi compagni di scuola, una famiglia poverissima che fino ai suoi undici anni aveva vissuto in un garage: il padre che perdeva spesso il lavoro e non aveva mai superato il trauma della guerra, la madre che faceva lavori di sarta per mettere insieme il pranzo con la cena, la sorella e il fratello che, a modo loro, cercavano di sfuggire a quella vita da feccia umana e lei...

Lei, Lucy Barton, che da piccola veniva lasciata sola nel furgone del padre e che perciò odia i serpenti, lei che con il cugino andava a cercare da mangiare nei cassonetti. 

Lei, Lucy Barton, che diventata donna, moglie e madre, cercherà di dimenticare quella Cosa del suo passato di cui mai riuscirà a parlare con la madre, e che le terrà lontane a tal punto da non essere in grado di dirsi un semplice ti voglio bene.

Ci vorranno molti incontri nella vita di Lucy, quello con Jeremy, Molly, Sarah Payne, un divorzio e un nuovo marito, perché lei possa riconciliarsi con il passato, con se stessa e con quella vita che la lascia sempre senza fiato.

Una storia che poteva essere il ritratto di una famiglia diversa ma che, pagina dopo pagina, si è trasformata nel racconto di una storia d'amore: l'amore sofferto, duro, quasi impossibile tra una madre e sua figlia, e quello, altrettanto complicato e mai risolto, tra una donna e il suo passato.

Devo dire che la prosa di Elizabeth Strout mi ha affascinata e a volte destabilizzata, forse perché riesce a toccare corde profonde e a smuovere sensazioni, se non ricordi personali, in cui ci riconosciamo in quanto esseri umani.

E Lucy Barton... beh l'ho amata per quel suo essere fragile, indifesa, vittima predestinata all'apparenza ma, invece, forte e padrona del suo destino, nonostante tutto.

Un romanzo che consiglio, buona lettura!

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