Sabato, 15 settembre 2018: il mio racconto Una rosa bianca riceve il premio per il secondo posto nella sezione narrativa alla V Edizione del Concorso Letterario Albiatum.
Ora con immenso piacere lo pubblico sul mio blog e spero possa regalarvi grandi emozioni come quelle che ha fatto vivere a me.
Buona lettura!
Una
rosa bianca
Le tue
mani sistemano i CD sulla libreria – non sono mai in ordine come vuoi tu! -,
piegano i miei pantajazz e gli
scaldamuscoli fucsia che avevo comprato da H&M, sperando, un giorno, di
essere chiamata a fare un provino per Flash
Dance. Le tue mani. Non avrei mai immaginato che l’eternità avrebbe avuto
la forma e il calore delle tue mani. Ma anche il suono di quelle voci che non
mi abbandonano mai. E io vorrei tanto chiudere gli occhi e addormentarmi. Per
sempre.
Ehi, hai visto quella nuova in Seconda C? La tipa con i
denti da coniglio e i capelli color topo, una cozza da paura! Sì, quella del
primo banco… nessuno ha voluto sedersi vicino a lei, è così brutta che di
sicuro mena anche sfiga!
Non è facile avere quindici anni e sentirsi
diversa. Diversa da quelli che dovrebbero essere come me perché hanno la mia
età, vivono i miei problemi e sognano le cose che desidero anch’io. Non è
facile; ci vuole forza e tanto coraggio per resistere alla tentazione di
lasciarsi andare.
Sfigata è diventato il mio
soprannome. Nessuno mi chiama più con il mio vero nome, ma tanto a nessuno
importa quale sia. Mi sveglio alla mattina e corro in bagno a vomitare: le
budella si contorcono fino allo spasmo, è l’unico modo che hanno per dirmi che,
anche loro, non ce la fanno più. Cerco di pensare che devo resistere, che si
tratta solo di poche ore e poi tornerò a casa. Ma a chi voglio raccontarla? Mi
sento in trappola, non ci sono vie d’uscita, non ho scampo. E così, un giorno
dopo l’altro, nascondo con il fondotinta, che prendo di nascosto dal beauty di mia madre, le occhiaie di
notti passate a fissare il soffitto, a piangere e a supplicare Dio di mettere
fine a questo tormento.
Guarda come si è combinata oggi la Sfigata!
Ma dove l’avrà trovata quella maglietta? Io non la metterei neanche al mio cane
per uscire quando piove! Ma questa puzza anche peggio... Al posto suo mi chiuderei
nel cesso e non uscirei più!
Mi
tremano le gambe e la nausea sale, quando devo attraversare il corridoio che
porta alla mia classe. Loro se ne stanno appoggiati alle pareti a fissarmi, a
ridere di me. Le ragazze sono le peggiori; qualcuna si è finta mia amica e mi
ha dato consigli su come truccarmi, su cosa indossare per essere come loro:
ammirate, fighe, popolari. Era tutto un piano studiato solo per rendermi ancora
più ridicola, patetica.
Sfigata, ma dove hai preso quel catorcio?
Dai, forza scendi che ci facciamo noi un giro. E smettila di frignare e di fissarci con quegli occhi da
pesce lesso… Se la pianti subito, magari
te la riportiamo tutta intera!
Vorrei
scappare, ma mi hanno circondata e mi costringono ad arretrare contro il muro.
Poi partono i calci; la bicicletta è a terra, distrutta. È quella del nonno,
con la canna orizzontale da passeggio. L’avevo trovata impolverata nella
rimessa, ma con un paio di mani di vernice azzurra e un bel cestino di paglia
era tornata come nuova. La uso per andare a studiare in biblioteca e per
gironzolare lungo l’argine del fiume, quando il sole fa schiudere i germogli
sui rami e le uova di libellula tra i fili d’erba.
Scommettiamo che la Sfigata non è mai
andata in discoteca? E oggi si è pure messa in tiro… quasi quasi fa concorrenza
alla Mariangela Fantozzi! Ehi, fa’ un po’ vedere cos’hai lì sotto? Però, ha un
bel paio di tette la Sfigata… mi sa che oggi qualcosa le tocca…
Ridono,
mentre si passano una canna. Salgono in auto; si sentono grandi, onnipotenti.
Qualcuno mi spinge: dai, vieni anche tu che ti facciamo divertire. Vorrei
gridare di no, ma dentro non trovo più la forza. Voglio essere come loro, una
di loro, basta che tutto finisca in fretta. Poi le luci che feriscono gli
occhi, la musica che stordisce. E quel bicchiere che tengo tra le mani e che si
riempie una, due, tre volte. Qualcuno mi butta su un divanetto; sono ubriaca,
non riesco nemmeno a parlare, a muovere un dito. Non sento più niente. Adesso
sono come loro.
Sei sicura di star bene? Hai un colore che
non mi piace… vieni qui che ti provo la febbre. Ma si può sapere cosa hai combinato ieri sera? Ti ho
sentita tornare che erano le tre passate… Meno male che tuo padre non era
sveglio, sennò due scappellotti non te li toglieva nessuno!
Non è
facile avere quindici anni e non riuscire a parlare con la propria madre. Io
non ci ho nemmeno provato; pensavo che i miei occhi rossi, i silenzi a occhi
bassi, la musica spenta nella mia stanza, gli scaldamuscoli dimenticati sul
pavimento, e il cibo rifiutato con qualche scusa avrebbero parlato per me. Non
è facile dire certe cose quando ti accorgi che l’unico desiderio di tua madre è
sapere di aver messo al mondo la figlia perfetta, mentre quello di tuo padre è
ottenere una promozione in ufficio. Non è facile quando sei sola, quando non
hai amiche di cui fidarti e tutti ti chiamano Sfigata.
È molto
più facile chiudersi a chiave in camera e passare ore davanti al pc, dove nessuno sa chi c’è dall’altra parte, e dove
ho finito per credere di essere anch’io come tutti gli altri. Lì puoi fingerti
più grande di quella che sei, disinibita e provocante. Puoi provare ad essere
donna con l’animo di una bambina. Puoi giocare a mostrarti quella che gli altri
ti hanno costretta ad essere, distruggendoti col disprezzo, il ridicolo,
l’umiliazione.
Puttana. Sei solo una puttana.
Così
c’era scritto con la vernice rossa sulla porta del garage. Perché loro non mi
hanno mollato; adesso che credevo di avercela fatta a essere come loro, mi
hanno respinta, ancora una volta. Non ero solare, moderna, disincantata, ero
solo una puttana. Ma è difficile essere una puttana quando hai quindici anni e
la vita non ti ha ancora insegnato come si incassano i colpi bassi.
Ammazzati e facci felici.
Hanno
aggiunto sotto e io li sento ancora sghignazzare, mentre uno dopo l’altro mi si
buttano addosso su quel divanetto che puzzava di alcol e della mia paura. A
loro basta poco per essere felici; gli basta sapere che sparirò dalla faccia
della terra, che non vedranno più i miei denti da coniglio e i capelli color
topo. Io che felice non sono mai stata: non come gli altri volevano che io
fossi, non come sognavo, quando mi addormentavo sfinita sul cuscino bagnato,
pregando di non svegliarmi più.
Così è
stato facile uscire sul balcone, chiudere gli occhi e lanciarmi nel vuoto. Volare,
sapendo che tutto sarebbe finalmente finito. Sapendo che avrebbero dovuto
cercarsi un’altra sfigata: io adesso ero libera.
Ti
osservo, mentre ti chini a mettere una rosa bianca tra i fiori di campo che mi
porti ogni giorno sempre alla stessa ora; quella in cui c’è meno gente e puoi
fermarti a parlare con me più a lungo, senza che nessuno ci disturbi. Ma oggi
c’è qualcosa di diverso: forse è solo una sensazione, ma il sole è un po’ più
caldo, l’azzurro del cielo un po’ più intenso, e le tue lacrime meno tristi.
Lara, era
una ragazza come voi. Lara amava, anzi no!, lei ama la musica e la danza come
molti di voi… Lara aveva tutta la vita davanti e il diritto di viverla a modo
suo. Nessuno potrà mai togliervi questo diritto, perché voi tutti siete Lara!
Oggi hai parlato di me, lo hai fatto davanti a
ragazzi della mia età e alla fine, quando ti hanno applaudita hai sorriso; era
da tanto, troppo tempo che non lo facevi più. Adesso anche tu sai che questo
dolore non è stato vano, e io non sento più le loro voci. Ora posso
addormentarmi in pace, mamma.