Pillole di me
Oggi ho voglia di
giocare: a prendermi un po’ in giro, a sdrammatizzare, a ridere di me all’ombra
delle mie serene manchevolezze. E lo faccio con tante pillole colorate che
ricordano stati d’animo diversi, ma sempre complementari: felicità e
malinconia, umorismo e serietà. Piccoli assaggi di sogni, illusioni, delusioni,
fragilità e certezze.
Perché così è la vita:
basta saperla prendere a piccole dosi!
Bevo la vita
La questione sta tutta
dentro un bicchiere; di Barolo o Bardolino, quel che conta è che sia un vino buono e sincero. Uno di quelli che mandano in estasi le papille con
aromi di spezie e sottobosco e che, quando scendono giù per la gola, sai già
che abbatteranno tutte le tue barriere.
Nessun
vino mi ha mai delusa, nessuno mi ha mai abbandonata, dopo avermi fatto girare
la testa. Di solito sono io a scegliere lui, e non viceversa: è il bello di questa nostra relazione mai banale, quasi sempre barricata e, a volte, barcollante.
E stasera, una come
tante, sono uscita di punto in bianco
e adesso sono qui seduta in questo bar: io e una bottiglia di un vino bianco,
frizzante, che mi ha già riempito la testa di mille bollicine. Boom boom le sento esplodere una alla volta e non riesco
a trattenere una risata che mi scoppietta sulla labbra come il respiro di un
cavallo bolso.
«Ehi
tu, barman! Voglio offrirti un goccio
- dai forza! - bevi alla mia salute!»
Biascico, mentre allungo la bottiglia, ormai vuota, all’uomo con una
bandana a stelle e strisce sulla
fronte che mi guarda da dietro il bancone.
«E
non stare lì a fissarmi come un baccalà!
Che c’è, non hai mai visto una signora un po’ brilla? Non sarai uno di quei bellimbusti
che con le donne pensano di poter fare il bello
e il cattivo tempo?» Ma già la testa mi cade pesante come un macigno e le
parole si smorzano in un balbettio
confuso.
Orme
di passi sulla battigia risplendono
sotto la luce biancastra delle
stelle. È buio, ma riesco a contarle.
La musica di una balera sulla
spiaggia mi porta il ritmo di una bachata
languida dentro il calore di questa notte estiva. La ascolto e i battiti del mio cuore accelerano
impazziti come i nostri fianchi allacciati.
Con la mano allontano
dagli occhi l’ultimo barlume di coscienza che mi impedisce di assaporare
tutta questa beatitudine, e mi
abbandono: ai tuoi baci che esplorano
la mia pelle, alle tue braccia che
stringono il mio domani. Mi basta
solo un attimo ancora per sapere che sei tornato da me; un ballo, un altro, e resterai con me, eternamente bello come un dio greco.
La
musica incalza e martella le mie tempie. No, questo è davvero un martello –
niente potrebbe fare tanto baccano! –
che batte incessante nella mia testa
e un brusio di voci lontane lo
accompagna come un’orchestra stonata.
«Sveglia,
signora!, sveglia! Dobbiamo chiudere» Sta gridando l’uomo con la bandana e il tuo volto abbronzato scolora sul fondo del
mio bicchiere.
Mi
alzo e barcollo verso l’uscita; non
ho più un briciolo di dignità, e lo
stomaco brucia come l’inferno, dove
un giorno ritroverò i tuoi occhi che ho perso dentro una bottiglia.
Fermo Posta
Felicità
Fermo Posta Felicità. Sembra il titolo di un film, vero? E, invece, potrebbe essere quello della mia vita; una
vita trascorsa nella folle ricerca
dell’amore, quello con tutte le lettere maiuscole, naturalmente. L’amore che –
e sono certa che è stato così anche per voi! -
ci hanno insegnato a sognare fin
da fanciulle: quello che finisce col matrimonio e una fila di figli da poterci fare una
squadra di calcetto, tanto per capirci. Già quell’amore…
Moglie fedele, regina del focolare
e madre di famiglia, così era stata
mia madre, così sarei diventata anch’io. Il mio futuro era già segnato e, per anni, questi erano stati i punti fermi della mia vita, finché un giorno era comparso lui: Federico, professore di filosofia. Ci eravamo messi a
chiacchierare mentre aspettavamo il filobus
73; scesi in Piazzale Famagosta
avevamo cominciato a scambiarci furiosamente
opinioni e baci, e alla fine di febbraio ci stavamo già sposando a Firenze, la sua città natale. A raccontarlo sembra una follia, ma – vi assicuro – abbiamo vissuto felici e contenti per una decina d’anni come nelle più belle fiabe.
Poi - non so nemmeno io come -
perdemmo il filo dei nostri discorsi
sempre più frammentari, finimmo con
l’annichilirci a vicenda e, finalmente,
cessammo di esistere l’uno per l’altra. Fuori
dalla mia vita! Esultai, ma la fibrillazione
euforica durò il tempo di un fuoco
d’artificio.
Seguirono giorni pieni di false partenze, e notti senza fissa dimora dentro letti fugaci che abbandonavo con fughe degne di Fantômas, non appena percepivo nell’aria sentore di relazione fissa. Fragilità il tuo nome è donna, ma nel mio caso era facilità.
Una tipa facile, una femmina
mangia uomini: falsa, fedifraga e col fanculo sempre pronto per mettere la parola fine a una storia. Questo era diventata la fanciulla con le farfalle
nel cuore che, adesso, farneticava di
finti organismi e giocava con flebili lamenti sfiorando con le dita
una tastiera, come un tempo faceva
con la fronte febbricitante di un fidanzato.
In quel fiume straripante di profili fake
e foto ritoccate in cui mi tuffavo
ogni notte, in fondo in fondo speravo di trovare qualcuno che
riuscisse a portare in salvo la donna che, faticosamente,
ancora fremeva per quel sogno d’amore
eterno finito con una firma davanti a un giudice frettoloso.
Click dopo click mi ritrovai, fatalmente, a cercare emozioni sempre
più forti per saziare la mia fame bulimica di vita. Funambola senza rete camminavo sul filo del pericolo, stordendomi di sesso
e “fumo” come una falena attratta dalla luce di un falò.
Facce e voci
sconosciute riempivano le mie notti, finché
una lama fredda in un vicolo
senza nome fermò la mia lucida frenesia di distruzione. Fu il rosso del mio sangue sull’asfalto
a farmi decidere di spegnere quel fuoco infernale che aveva mandato in fumo la mia vita.
Fermo Posta Felicità è il mio nuovo recapito: un
indirizzo senza francobollo, un
angolo fatato di mondo, o, forse, uno spicchio di cielo, dove non fermano corriere e non passano né strade
né ferrovie.
Fantasie! direte
voi, ma – fidatevi! – sta in queste tre parole la mia nuova
identità; sono tornata ad essere la fanciulla
con le farfalle nel cuore di tanto
tempo fa, e non mi è servito
nient’altro per riprendere a volare in alto sulle ali della mia felicità.
Localmente
mosso
Localmente mosso. Lascio le lenzuola dove non trovo più il calore del tuo corpo e scendo in
cucina. Nel lavello piatti sporchi e
padelle incrostate mi osservano. Passo oltre e mi verso una tazza di
caffè; il liquido denso e nero agita i miei pensieri. Te ne sei andata, lieve
come la neve che si scioglie prima di toccare il mare. Guardo fuori dalla
finestra e un cielo livido e
freddo mi dice che oggi non andrò al lavoro. Oggi ho solo voglia di spegnere
il cervello e leccarmi il cuore.
Piatti sporchi e padelle incrostate nel lavello;
li laverò domani.
C’è un solo luogo dove riesco a lasciarmi
andare, dove il tempo scorre più lento
e lecca la mia mano come un gatto
dalla lingua ruvida. E mentre ascolto
il respiro del mare che mi insegue e si ritrae, provo a lisciargli il pelo, per farmelo amico.
Spruzzi di onde tagliano la mia
pelle come lame di sale, mentre
cammino sulla sabbia scura. Un gabbiano stride alto nel cielo; non ci sono
conchiglie oggi sulla spiaggia e nemmeno frammenti di libertà.
Siamo sempre stati una
contraddizione lampante, io e te. Liti violente e lassi
di tempo senza una parola. Troppo diversi, discordanti, inconciliabili, io e
te. Luna e sole giravamo su orbite lontane, in una Via Lattea che solo noi abitavamo. Ci siamo sfiorati, scontrati e
allontanati; per poi tornare a ripetere tutto daccapo come se stessimo seguendo
due linee rette. Perfettamente dritte
e mai destinate a divenire una sola.
Eppure siamo stati così lacunosamente uguali, io e te. Più simili nel male che nel bene, ci siamo
presi, lasciati e poi ripresi:
completamente persi in un labirinto
di lussuria e leggerezza. Abbiamo bevuto insieme lacrime liberatorie, lordato
lenzuola intrise dei nostri languori
e scritto sulle labbra i nostri
peccati.
Legami e
liberami; è sempre stato questo il nostro gioco. Io cercavo di
legarti ai miei sogni, tu volevi liberarti per poter tornare da me. Tu
desideravi legarmi ai tuoi giorni lenti, e io liberarmi dai miei perché. Incatenati come schiavi l’uno all’altra
non abbiamo mai alzato il capo al cielo; quel cielo che, intanto, splendeva limpido e luminoso sopra di noi.
Lingue
di sabbia luccicano sotto i miei
piedi che ancora ricalcano le tue orme lontane.
Te ne sei andata, lieve come la spuma
che non arriverà a domani. Ladra di
sogni non hai lasciato nulla dietro
di te. Neanche la rabbia e il tuo nome da gridare al vento. Guardo il gabbiano
cullarsi sull’orizzonte, mentre lampi
salmastri lambiscono le mie guance.
Localmente mosso. Ho
spento il cervello, ma non sei tornata. Il letto
mi aspetta con le lenzuola sfatte che
ancora mi parlano di te; in questa casa che non ha luci né specchi, e dove il tuo respiro non è più su di me. Passo
accanto al lavello; piatti sporchi e
padelle incrostate mi scrutano muti. Oggi ho solo voglia di leccarmi il cuore e lustrare il dolore. Li laverò
domani. Domani.
Peanuts
Porco. Del porco non si butta via niente, e tu eri
un porco. Sissignore, un gran porco. E allora perché non ho tenuto
nulla di te?
Come
dice il proverbio, o forse era una parabola? Non gettate le perle ai porci e, per la miseria, con tutte quelle che ti ho dato avrei potuto
farci un’intera parure: collana e
orecchini pendant.
Penelope tesse la tela e la disfa di
notte per non andare in sposa ai Proci.
E Ulisse intanto se la spassa sull’isola con Circe che tramuta i suoi poveri compagni in porci. Paese che vai,
usanze che trovi, ma in qualsiasi posto
capiti è pacifico che del porco non si butta via niente; neanche
il piede che, palesemente, si tramuta in zampone.
Parole, parole, parole. Brutta puttana del Peloponneso! Urlavi quando tornavi dal pub dove avevi perso
cinque mani di poker e pagato altrettante pinte di birra ai tuoi parchi
paesani. E io passavo le pene dell’inferno a fare e disfare una
tela di pelo di cane morbido come il
vecchio Argo. Un cane pastore
bastardo che amava spaventare le pecore,
e poltriva interi pomeriggi sulla porta di casa.
E
se, invece di una tela pidocchiosa,
avessi giocato con la palla di pelle di pollo fatta da Apelle figlio di Apollo? Ma come proseguiva la filastrocca? Ah sì, e
tutti i pesci vennero a galla per
vedere la palla. Un pescatore getta le reti nel mare profondo. Ehi lei, pesca i persici? O che
non si vede che codesta è la palla di
Apelle?
Volere
è potere, dormire è forse sognare, pensare è la prova dell’esistenza. Ma chi pensa
col pene compie peccato mortale o veniale? Auto parcheggiate
in doppia fila attendono di far salire a bordo prostitute molto professionali:
sesso protetto e tute di pelle nera.
Ulisse
non è ancora tornato e Telemaco grida papà,
mentre piange a dirotto. O forse
chiede la pappa? Il vecchio Laerte
gira per casa col pappagallo e la sua
prostata infiammata non ha una bella
cera.
Tessi
la tela, disfa la tela; quasi, quasi stasera vado in pizzeria col più piccolo
dei Proci, tanto per distrarmi un po’. Ma se esco, poi chi cambia il pannolino
a Telemaco e il pannolone al vecchio piscione?
Ho
capito, anche stasera plaid, divano e
tisana al pino mugo (peccato la play-station ancora non c’è!). Metto un post-it sul frigo: torna Ulisse, prima o poi…
Tessi
la tela, disfa la tela, ma che palle!
Perché proprio a me? Squilla il
telefono e mi passano Apelle. Pare abbia perso la sua palla di pelle di pollo. Forse, non so.
Tempo al
tempo
Tic, tac,
tic, tac. Tempo; batte veloce sui tacchi come un ballerino di tip
tap in una corsa tachicardica a tutto ritmo. Prendi tempo
se non ce l’hai, perdi tempo se non
sai come trattenerlo tra le dita tremanti quando scorre tedioso. Manca il tempo: sempre, tragicamente.
Non so se ce la farò a non ascoltare il trascorrere
del tempo. No, devo tacere e smettere di pensare. Tralascio teoremi che non mi appartengono e taccio nomi che non conosco: devo tenere il tempo.
Tic, tac,
tic, tac. Tempo; non basta mai come i baci di due amanti
separati troppo a lungo. Siediti e
lascia scorrere tutto. Solo tu puoi
guardarti dentro: tempo presente,
passato e futuro. Tempo infinito che
sembra finito. Un pianto lontano mi travolge
come un mare in tempesta; sale la
marea e trascina via tutto in un vuoto senza tempo. Ho paura del tempo che non trovo, ma
che cerco, testardamente. Non ho più tempo di telefonare, telecomandare,
taggare e twittare. Non so quanto durerà il mio tempo e forse non saprò mai dare tempo al tempo.
Tic, tac,
tic, tac. Tempo; si tende
come un filo sottile che tiene uniti
due punti infiniti: io e te. Ho tante
cose da fare, non toglietemi il tempo! Che senso ha concedere tempo se poi un giorno finirà? No, non
voglio saperlo! Chi mi insegnerà come rinunciare al tempo? Ho sperato, tenacemente,
di non trovarmi da sola a dire addio
al mio tempo. Dove va a finire il tempo?
Tic, tac,
tic, tac. Tempo; datemi il tempo che un ladro taciturno
mi ha rubato dentro notti tenebrose.
Il tempo di lasciare le cose che mi
sono appartenute, le persone che non mi apparterranno più, i miei talenti nascosti sotto un tumulo di terra scura. Datemi il tempo
e lasciatemi piangere il tempo che
non ho. Si alzano le onde e il mare mi avvolge nel suo tempo senza orizzonte. Tremo,
sotto un temporale di fulmini titanici, perché so che, quando il mio tempo finirà, non avrò avuto il tempo: per tutto, per tutti.
Tic, tac,
tic, tac. Tempo; ti ritrai come un guerriero timoroso davanti all’eternità. Basta,
basta con questa tortura! Perché tergiversare ancora? Chiudo gli occhi,
mentre ascolto il tuo battito tiranno
che tregua non da’. Sto solo
sprecando del tempo, ma ancora temporeggio, mentre lacrime turgide mi bagnano il petto.
Tic, tac,
tic, tac. Tempo; insieme a te ho tessuto trame di sogni, trapunto
il cielo di stelle e tracciato
sentieri umidi sulla pelle. Stendo le mani e già non mi appartieni più: a te mi
aggrappo, tenue filo di luce, a te
che trionfante mi traghetti nell’immortalità.